Zeviano senza Zevi - di Marco Del Francia

In una intervista del 2005, rispondendo a una domanda sul perché in Italia avesse fatto fatica a trovare una affermazione critica, Vittorio Giorgini, dopo aver svolto una lucida analisi della situazione italiana, chiuse dicendo:


“Credo che un diverso approccio della critica, all’epoca avrebbe potuto far veicolare diversamente il mio lavoro. Forse mi è mancato uno Zevi che credesse in me”.

Stranamente, in un momento in cui Firenze si posizionava in Italia come un centro fervido e culturalmente riconosciuto, nonché ambìto da molti studenti e docenti, e in cui tanti architetti (alcuni senza averne le doti) emergevano pubblicando i propri lavori sulle riviste di settore, Giorgini - che nel capoluogo toscano si era formato e nel quale negli anni ’60 aveva aperto un proficuo studio professionale (collaborando, fra gli altri, con Ludovico Quaroni, Edoardo Detti e Leonardo Savioli) - viene bypassato dalla critica ufficiale e i suoi lavori più arditi, come Casa Saldarini (1962), vengono visti come frutto di un divertissement isolato.

 


Non servono gli stretti rapporti con storici e critici (tra cui Franco Borsi, Lara Vinca Masini, Italo Tomassoni e Alberto Busignani) né tantomeno l’amicizia - quasi fraterna - con Giovanni Klaus Koenig, all’epoca animatore culturale nella sua molteplice attività che lo vide essere condirettore di Casabella, vicedirettore di Parametro e collaboratore di numerosi quotidiani e riviste tra le quali Domus, Modo e Ottagono, per ottenere un commento o una critica più sostenuta. Koenig nondimeno era in buonissimi rapporti proprio con Bruno Zevi, per il quale collaborava per L’Architettura. Cronache e storia e alla collana Universale di Architettura. Ma in questo caso la proprietà transitiva non si estese a Giorgini e di fatto Bruno Zevi, con l’architetto fiorentino, non strinse mai rapporti né produsse una qualche forma di recensione del suo lavoro (né, è evidente, Koenig segnalò le capacità progettuali dell’amico; di più, lui stesso nel 1970 pubblica l’articolo Kitsch. Qualcosa di non autentico, all’interno di Skema, mensile di attualità e cultura, inserendo proprio Casa Saldarini come esempio in ordine al tema trattato).


È singolare che le premesse del lavoro di Vittorio Giorgini, a partire dagli anni universitari e alla luce degli elaborati didattici conservati in archivio, fino ai primi lavori della professione, si nutrono proprio delle influenze architettoniche che Bruno Zevi prese a far navigare attraverso Metron prima e L’Architettura dopo. Stimolo sicuramente ben maggiore di quello ricevuto nelle aule universitarie, fu infatti per Giorgini la scoperta dell’opera di Frank Lloyd Wright sulle pagine delle riviste di Zevi. Nel mezzo (1951) l’importante mostra dedicata all’opera dello stesso Wright, in Palazzo Strozzi a Firenze, che contribuisce a consolidare l’interesse di Giorgini intorno all’architettura organica del maestro americano. Non è un caso che in quello stesso anno il giovane studente, nel dipingere al vero un tratto dell’Arno alla periferia di Firenze, inventi, sulle raffigurate sponde del fiume, dei volumi architettonici secondo una visuale che richiama immediatamente alla memoria i piani orizzontali di Wright (o la prospettiva di Casa Kaufmann). Così come non è un caso che in un album di Giorgini studente, una notevole quantità di pagine, la più numerosa rispetto agli altri riferimenti architettonici, è dedicata alle opere del grande architetto statunitense, tratte in particolare dalle “Prairie House”.


Nell’ideale zeviano di architetto, Vittorio Giorgini poteva incarnare in toto le caratteristiche peculiari più volte richiamate dal critico e storico romano.


Specie quando Zevi trascenderà l’architettura organica di Wright verso un ambito non solo architettonico, ma anche di “fede in alcuni principi generali di ordine politico e sociale”, e in cui nella architettura stessa - spazialmente aperta e figurativamente irregolare e asimmetrica -  scorge l’emblema della democrazia, si può assistere in Giorgini la medesima declinazione. L’organico wrightiano tanto amato diviene riduttivo e limitato nell’incedere curioso di Giorgini, che già alla metà degli anni ’50, ancorché studente, ne cerca implicazioni più ampie (pur rimanendo Wright un punto fermo di riferimento); così come comincia l’insofferenza verso il Movimento Moderno con la sua geometria cartesiana dei solidi ripetuta come unica e valida soluzione ai problemi costruttivi e abitativi, senza quasi più una cognizione critica delle problematiche sociali e dove la prefabbricazione, invece di rappresentare stimolo per nuove ricerche tecniche, diviene strumento speculativo di aridi componimenti pseudo-architettonici.


Lo scrollarsi di dosso certe consuetudini progettuali, la ricerca di alternative alla prassi corrente, rompere con lo spazio cubico tradizionale per ritrovare in forme più ‘espressive’ quei risultati spaziali sicuramente più validi delle consuete stereometrie edilizie; riuscire a non cadere - quasi per reazione ad una situazione di regresso dell’architettura italiana - in rivalutazioni di stili del passato, con operazioni tipo neo-liberty o indirizzate verso il postmodern; la ricerca e lo studio al di là delle ideologie e delle religioni: le istanze di Vittorio Giorgini non sono le medesime che hanno mosso e muovono Bruno Zevi?


Di soli 8 anni più grande, con diverse amicizie in comune, la strada di Zevi - sembra veramente incredibile - non incrocerà mai quella di Giorgini. Eppure sono davvero molte le analogie e le vie parallele percorse. Compresa quella, nella costruzione di una coscienza di libertà, di credere politicamente entrambi allo stesso partito, quello Radicale (Zevi sappiamo tutti che ne divenne deputato e presidente, fino alle dimissioni avvenute nel 1997), in cui Giorgini cominciò a riconoscersi dopo che gradualmente si era allontanato, deluso, dalla Sinistra, sua area politica di riferimento. Va da sé che nelle sette invarianti di Zevi è possibile riscontrare le medesime “sollecitazioni” che ritroviamo nei lavori di Vittorio Giorgini. Prendendo le opere dell’architetto fiorentino, dalle prime fino alle ultime della sua produzione, possiamo individuare ad esempio: organismi che sembrano procedere verso un processo di destrutturazione linguistica, condotti sempre sotto una personale ed efficace rivisitazione critica; corpi utilizzati come elementi di una struttura unica spaziale nella quale la visione è attirata in molteplici direzioni, così da togliere significanza alla facciata, all'architettura come somma di “quinte” prospettiche da fruire scenograficamente; possiamo altresì notare che ogni prospetto risulta essere diverso dall’altro, un modo per creare un’architettura delle differenze, mai ripetitiva se non nei singoli episodi; così come si può riscontrare un diverso trattamento materico e formale laddove l’architetto vuole evidenziare un episodio interno che varia e che vuol essere comunicato; noterete corpi differenti ma che mostrano continuità d’insieme, quasi fossero un unico organismo; così come è possibile riconoscere l’abilità nel modo di sospendere, far aggettare e rientrare i corpi edilizi, creando un effetto di ‘sospensione’ dinamica (riscontrabile anche a livello di sezioni) sottraendo, unitamente all’uso di aperture ripetute, eventuali impressioni di pesantezza dovute alla mole del manufatto, favorendo un gioco di plastici effetti chiaroscurali. Ci sono progetti che si estrinsecano, a livello di pianta, su linee prevalentemente ortogonali, ma le cui forme, in alzato, variano conformazione quasi a denunciare la pressione degli spazi interni: orizzontali e verticali che divengono antagonisti; elementi strutturali che si elevano a dignità compositiva; composizioni euclidee a cui si affiancano e si contrappongono spazi plasmati; superfici che si dilatano. Il Grado Zero di Vittorio Giorgini però - che parte certo dopo aver assimilato profondamente e “digerito” la storia, ma scevro da nostalgie passatiste - si nutre totalmente delle possibilità del presente, offerte essenzialmente dagli insegnamenti che si possono ritrovare nella natura: “L’espressione di un progetto non sono gli stili. Gli stili sono una categoria dogmatica e un’abitudine che si è formata nel tempo sviluppata per definire modi del fare nelle arti tradizionali e locarli nel tempo e nello spazio. In natura gli stili non esistono, ma esiste invece un qualche cosa che ancora oggi non abbiamo capito, data l’abitudine superficiale e cosmetica delle nostre tradizioni del fare”. Ed è nella morfologia che Giorgini trova il superamento dell’organico, e nella quale incentrerà il suo lungo lavoro di ricerca. L’intuizione di considerare le strutture esistenti in natura - siamo nei primi anni ’50 - come delle tecniche di funzionamento e di costruzione; i conseguenti tentativi empirici nella ferma convinzione di trovare soluzioni pratiche e specifiche per dare forma a una natura artificiale, superando lo spazio euclideo; l’ideazione della membrana isoelastica come tecnica affine alla natura, realizzata per mezzo della tecnica della rete e cemento; gli studi sulla Cimatica contaminandosi con gli esperimenti vibratori e le figure soniche di Hans Jenny: sono i primi passi che portano Giorgini alla ideazione e realizzazione di Casa Saldarini, ovvero una costruzione con caratteri topologici, di elasticità statica e di leggerezza mai visti prima nel campo delle costruzioni, fino ai pioneristici progetti eseguiti poi in terra statunitense, basati su maglie spaziali e tensostrutture, studiando i comportamenti della statica animale.
L’organico di Wright si trasforma dunque in una cosa diversa, più ampia, che raccoglie legami olistici a 360 gradi, tanto da indurre Giorgini a coniare una nuova disciplina (con tanto di manifesti teorici), che è la “Spaziologia” (e successivamente conia anche la “Urbologia”, in conseguenza di una deriva sbagliata, ideologica e non contemporanea che secondo lui ha preso l’urbanistica). In entrambe è sempre la natura la grande maestra, l’unica ricca di esempi di sistemi più o meno complessi che funzionano al meglio della loro organizzazione ed efficienza, interagendo tra loro e con l’ambiente. Ben a rappresentare questa nuova concezione e modello progettuale, è un disegno che vede in contrapposizione l’animale umano (uomo vitruviano), un soggetto considerato statico, chiuso e difensivo, che diviene un essere aperto, articolato, dinamico e mobile (uomo ‘giorginiano’).

 

Autore: Marco Del Francia

 

In copertina: 

Vittorio Giorgini

Hydropolis

Manhattan, NY, 1981-82

© Archivio Vittorio Giorgini

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