Natura

Con i suoi 800 kmq non edificati su una superficie urbana di 1.290, la città di Roma possiede il più grande compendio di aree libere d’Europa. Una elevata percentuale, circa 500 kmq, sono agricole o di origine agricola, le altre sono riserve naturali, aree ad alta naturalità, parchi urbani, ville storiche e giardini pubblici. Da questi elementi si potrebbe dedurre che Roma sia un paradiso di ecologia e biodiversità, cosa in parte non del tutto falsa. Secondo i dati dell’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali di Roma Capitale anche la dotazione pro capite di aree verdi, ottenuta sommando astrattamente le superfici disponibili, si aggira intorno a 16,5 mq per abitante. Molti rispetto ai 9,5 mq previsti dagli standard urbanistici. Eppure, alla verifica sul campo, la situazione non è esattamente questa, e il verde sembra spesso scarseggiare. O meglio, le aree ci sarebbero ma sono spesso impraticabili, poco accessibili, occupate da processi produttivi agricoli che ne rendono difficile l’uso pubblico, o peggio sono degradate o soggette a pesante inquinamento elettromagnetico, delle terre o delle acque.

Villa Pamphili, Arco dei Quattro Venti / 
© Geomangio / flickr.com

Il caso dei parchi e delle grandi riserve naturali rappresenta bene la situazione. Roma Capitale accoglie all’interno del proprio sistema ambientale 14 aree protette, delle quali 9 riserve naturali (Marcigliana, Valle dell’Aniene, Decima-Malafede, Laurentino-Acqua Acetosa, Tenuta dei Massimi, Valle dei Casali, Tenuta dell’Acquafredda, Monte Mario, Insugherata, per un totale di oltre 14.000 ettari), 2 parchi regionali urbani (Aguzzano e Pineto, per una superficie di oltre 300 ettari) e 3 monumenti naturali (Mazzalupetto, Galeria Antica e Parco della Cellulosa, anche esse di oltre 300 ettari). Ma provate a chiedere a un abitante dei quartieri limitrofi alla Riserva naturale della Valle dei Casali quale sia la sua percezione dello spazio aperto. Vi risponderà che a parte il panorama, in qualche caso di elevata qualità ambientale, per lui il parco non esiste. Sono aree poco fruibili, per nulla attrezzate alla visita e alla sosta, assenze e ostacoli nella rete infrastrutturale e dei servizi della città che è costretta a girare loro intorno. Al di là dell’aspetto percettivo, le aree naturali urbane sono con ogni probabilità spazi irrisolti e quasi inutilizzati ma sottoposti a ogni genere di vincolo, specie nella situazione attuale in cui i Piani di assetto dei parchi e delle riserve sono lungi dall’essere approvati e da 17 anni vigono le norme di salvaguardia del PRG che li hanno imbalsamati. Buona parte dei parchi di Roma è infatti nata in seguito a decreti ministeriali per contrastare l’avanzata della speculazione edilizia e dell’abusivismo. Ma da quel momento queste zone hanno vissuto in un limbo normativo e in una condizione di incertezza funzionale, con la complicità della burocrazia e delle sue tempistiche.


Villa Borghese e Villa Pamphili /
© Andrea Jemolo

L’iter di approvazione dei Piani d’assetto è di per se un nodo gordiano. Dopo essere predisposti dalla Regione e approvati dalla giunta, passano alle comunità territoriali per le osservazioni per poi ritornare in Regione dove, attese le controdeduzioni, si ripete l’iter. Ma se nel frattempo il Consiglio regionale viene rinnovato si ricomincia tutto daccapo. Tenendo conto dei blocchi procedurali succedutisi nel tempo, si comprende il motivo per cui alcuni di essi siano ancora al palo, generando una condizione avversa alla presenza e allo svolgimento di attività all’interno di aree che risultano di fatto abbandonate. A inasprire la situazione è giunto il commissariamento delle aree verdi, avvenuto nel 2010 sotto la giunta Polverini e prorogato anche per il 2015 dal nuovo Presidente Zingaretti, a cui si aggiunge la cronica assenza di fondi da destinare a queste aree. Oggi il sistema delle aree protette regionali versa in stato di degrado a causa della mancata vigenza della pianificazione e di una cattiva gestione che si protrae da anni. Per queste aree si attende una capacità decisionale che la politica non riesce a trovare, e che potrebbe trasformarle da problema in risorsa, da elementi di degrado a spazi di alta qualità del paesaggio, motori dell’economia locale e della qualità dello spazio pubblico urbano.

Non troppo dissimile la sorte delle altre tipologie di aree a verde della Capitale. Il primo problema è di ordine manutentivo, legato a una giusta proliferazione di aree a verde pubblico nelle periferie, alla quale non corrisponde un adeguato controllo amministrativo e gestionale. Mentre le aree naturali protette sono affidate a una agonizzante Roma Natura, Ente regionale per la Gestione del Sistema delle Aree Naturali Protette di Roma anch’esso commissariato da anni, la maggior parte del verde pubblico urbano è gestita dal Servizio Giardini, una struttura interna al Dipartimento di Tutela dell’Ambiente e del Verde che ha in carico la manutenzione dei parchi e delle ville storiche. Per l’anno corrente il Servizio Giardini ha a disposizione solamente 346 addetti (in passato erano 1.200), provenienti da un’azienda appaltatrice, di cui solo 160 sono giardinieri specializzati. Oltre a un netto taglio del personale, la scarsità di budget ha inoltre imposto la soppressione dei corsi di diagnosi visuale dei problemi vegetazionali e delle perizie strumentali, rendendo quindi impossibile una valutazione dello stato di salute degli alberi e una pianificazione sugli interventi da condurre. La speranza è che la nuova amministrazione cerchi di invertire questa tendenza della quale una delle conseguenze è la caduta improvvisa di alberi a causa di venti e piogge, spesso con danni a cose e persone.


Villa Borghese e Villa Pamphili

Ovviamente, e in misura molto superiore, soffrono della disattenzione relativa a questo stato di cose le zone a verde sprovviste di un riferimento nell’ambito della manutenzione e della amministrazione di routine, come i “vuoti urbani” non ancora acquisiti dal patrimonio comunale o in attesa di essere trasferiti alle competenze del Dipartimento per poi essere qualificati e resi fruibili. Ma lo stato di relativo abbandono colpisce anche le aree di più elevata qualità urbana e le ville storiche, non solo gli ambiti periferici, sebbene vi siano eccezioni che fanno ben sperare, come la riapertura del laghetto di Villa Borghese, completamente recuperato insieme al bel restauro del Tempio di Esculapio.

Un’altra area di pregio in cui si presenta un quadro di criticità è Villa Pamphili. Qui alcuni edifici ristrutturati in occasione del Giubileo del 2000 sono stati nel tempo abbandonati per mancanza di destinazione d’uso e fondi per la gestione e poi occupati abusivamente. Sono fabbricati reclamati dalla cittadinanza che potrebbero essere messi a disposizione di cooperative di giovani per la realizzazione di punti ristoro o per spazi da adibire a formazione, sport, attività culturali o altro, creando anche occasioni di lavoro e coinvolgendo i cittadini nel controllo e nella manutenzione del verde pubblico.


Villa Borghese e Villa Pamphili

Situazione meno allarmante, ma sicuramente non positiva, è quella di Villa Ada, il parco romano più ricco a livello di patrimonio ambientale per la varietà di flora. All’epoca dei Savoia fu scelto come residenza reale, oggi invece gli sportivi e i cittadini che lo frequentano per una passeggiata o un pic-nic sono sempre di meno. La manutenzione scarseggia, le aree gioco mostrano incuria, gli edifici sono chiusi o abbandonati. Le ex Scuderie Reali sono ancora inaccessibili al pubblico nonostante fossero state scelte prima come sede per il Museo del Giocattolo e poi della Casa della Moda, rispettivamente durante le consigliature presiedute da Veltroni e Alemanno. Anche il settecentesco Tempio di Flora, un tempo Coffee House, potrebbe ritornare a essere utilizzato con il contributo dei cittadini ma al momento è in attesa di decisioni. Una situazione di precarietà e abbandono che getta nello sconforto, poiché, data l’assenza di fondi per riqualificare il parco, c’è il timore che questo possa essere venduto per effetto del decreto Salva Roma. Inoltre le iniziative delle associazioni di quartiere, come la creazione di un “percorso degli alberi” con cartellini per il riconoscimento delle specie, trovano spesso ostacoli, essendo Villa Ada di competenza di più istituzioni, quando invece sarebbe auspicabile poter fare riferimento a un’unica figura responsabile.

Lo stato del verde pubblico a Roma è dunque in generale piuttosto difficile a dispetto dell’attività dei cittadini i quali, sebbene organizzati in comitati molto attivi, rischiano di cadere in uno stato di accettazione del degrado e di pessimismo rispetto al futuro. Negli anni sono nati movimenti e associazioni che hanno dato un contributo volontario e tangibile non solo nella denuncia di situazioni di abbandono, ma anche nell’intervento diretto nei casi in cui l’amministrazione si sia dimostrata manchevole, mediante azioni mirate e puntuali che vengono autofinanziate grazie a donazioni e iniziative di raccolta fondi. Che sia solo una fievole luce in uno scenario con ombre scure all’orizzonte oppure il primo passo per un futuro migliore, lo sapremo solo con il tempo.

Fanno parte di questo scenario anche alcune iniziative che portano in primo piano l’agricoltura in città. A Roma sono sorti in pochi anni oltre 150 spazi verdi condivisi e autogestiti dai cittadini dove si coltivano piante, fiori e ortaggi a chilometro zero. Si tratta di giardini recuperati dalla popolazione, orti urbani e “giardini spot”, microorti didattici puntuali ricavati da spazi sottratti all’incuria e all’abbandono.


© Geomangio / flickr.com

Sull’agricoltura e sul recupero della naturalità delle aree libere si gioca il futuro degli spazi non edificati della Capitale, aree sempre appetibili dalla speculazione edilizia e dall’edificazione spontanea. Presa coscienza dell’impossibilità e della poca ragionevolezza della trasformazione di aree così vaste in giardini curati, Roma deve accettare la sfida di una strategia economica agricola come strumento di riqualificazione del territorio e contrasto alla speculazione e allo sprawl edilizio, rigenerando nel contempo il paesaggio urbano mediante azioni diffuse di rinaturalizzazione. Una campagna urbana nella quale la casa, l’agricoltura e la natura possano convivere in una condizione ibrida e contaminata è un futuro su cui la nuova città metropolitana può lavorare.

Edoardo Zanchini:
chi decide il futuro della città


Edoardo Zanchini /
Vicepresidente Nazionale di Legambiente

“I cambiamenti avvenuti negli ultimi anni non sono solo concettuali. Quando nel 2008 è iniziata la fortissima crisi economica e del settore edilizio che stiamo attraversando ancora oggi, aveva già preso chiaramente corpo la consapevolezza dei danni che il consumo incontrollato di suolo e un modello di crescita incentrato sullo sviluppo quantitativo stavano provocando al territorio italiano”. È netto Edoardo Zanchini, vicepresidente nazionale di Legambiente, nella sua analisi di come oggi più che mai l’architettura debba rivedere la definizione delle modalità di intervento sul territorio stesso. A partire dal discorso ambientale.

Quali sono a suo parere gli scenari in cui si muove l’architettura oggi rispetto alla tutela dell’ambiente?
Innanzitutto servirebbe una consapevolezza condivisa che quel ciclo del cemento non ripartirà più nella forma e nelle dimensioni del passato. Se oggi vogliamo creare lavoro e dare un futuro all’architettura italiana, dobbiamo porre le basi per un nuovo approccio alle trasformazioni, che assuma nel progetto la questione ecologica e in particolare tutti gli aspetti legati ai mutamenti climatici.

A questo proposito si parla molto di rigenerazione. A che punto siamo in Italia? 
La rigenerazione è il grande tema con cui dobbiamo confrontarci nelle città italiane. Il rischio è, come spesso capita nel nostro Paese, che rimanga un concetto vuoto, un oggetto di dibattiti che prima o poi passerà di moda e verrà sostituito da qualcos’altro. Legambiente ne è pienamente consapevole, e per questo abbiamo promosso insieme al CNAPPC e all’Ance un’iniziativa come RI.U.SO., il cui obiettivo è affrontare il tema della trasformazione della città contemporanea. Di una cosa siamo pienamente consapevoli: se nel nostro Paese non diventerà più semplice ed economico intervenire in un’area urbana degradata piuttosto che in un’area agricola, il cambiamento oggi evidente a livello culturale in tema di consumo del suolo non si concretizzerà in processi paragonabili a quelli che invidiamo alle città europee. 

Che tradotto in pratica che cosa significa? 
Ripensare gli spazi della città per inserire attività e abitazioni a consumo energetico zero e con affitti a prezzi accessibili per chi ne ha bisogno, all’interno di moderni spazi pubblici degni di questo nome con attività, una mobilità incentrata su spostamenti pedonali, ciclabili, su ferro: nonostante questi siano obiettivi largamente condivisi, il cambiamento da imporre è difficile e radicale rispetto a quella che è ancora oggi la pratica in uso nelle città italiane.

Una nuova sfida anche dal punto di vista di chi deve progettare che si trova di fronte spazi frammentati, spazi di scarto, di risulta, nuovi territori di ricerca. 
Verissimo, abbiamo un grande bisogno di riappropriarci degli spazi della città. Di riportare identità e vita, restituire loro un senso che oggi sembra difficile persino immaginare perché ci siamo abituati a paesaggi degradati dal traffico e dall’utilizzo di materiali scadenti, da una disattenzione diffusa e inaccettabile rispetto a tutto ciò che è pubblico e quindi da condividere. 

Come vede, a questo proposito, la partecipazione crescente dei cittadini alle scelte urbanistiche?
Come Legambiente non possiamo che essere d’accordo e anzi sostenere questo tipo di iniziative da parte della collettività. Il primo obiettivo, perseguito attraverso le nostre campagne e i nostri circoli, è coinvolgere i cittadini nella riconquista di questi spazi, strappando al degrado aree usate come discariche o dove si era costruito abusivamente, e dando vita insieme ai cittadini a nuovi parchi, piazze, orti urbani. 

Come si tutela invece l’identità culturale di una città?
Qui entra in gioco un tema delicato come quello della bellezza, che nel nostro Paese è sempre stata declinata, anche da noi ambientalisti, al passato. Il tema della tutela di aree naturali o storiche, di luoghi e monumenti che rischiavano di scomparire. Accanto a questa attenzione, che di sicuro non si è esaurita, abbiamo bisogno di proporre la chiave della bellezza per ripensare luoghi ed edifici, e qui lo strumento dei concorsi può diventare una grande occasione per muovere idee, confrontarle con i cittadini in particolare per quelle aree della città che appaiono oggi isolate e senza speranza.

È chiaro come in quest’ottica il tema centrale sia quello della definizione delle regole con le quali operare sulla città in trasformazione. Su quale sia il ruolo dei diversi attori all’interno di un processo virtuoso di rigenerazione urbana. La domanda che non possiamo più evitare di porci, cercando di evitare ogni possibile risposta elusiva, è la seguente: chi decide il futuro delle città?
Se vogliamo assumere sul serio il tema della rigenerazione urbana non possiamo eludere una questione fondamentale. Occorre mettere da parte un approccio urbanistico e un armamentario tecnico che vedeva nel piano regolatore il riferimento fondamentale di ogni ragionamento sul futuro della città. Quell’idea di governo delle trasformazioni e quel tipo di strumenti erano nella logica di una città che doveva crescere, e di cui il piano era lo strumento per garantire, almeno in teoria, l’interesse pubblico. Oggi servono ancora regole di tutela nella città ma dobbiamo basarci su approcci nuovi. Prendiamo il caso di Amburgo: le grandi trasformazioni della città realizzate negli ultimi dieci anni sono state guidate da chiari obiettivi pubblici, ma soprattutto da una struttura che nell’amministrazione si occupava di garantire che nelle diverse trasformazioni fossero rispettate alcune priorità: qualità dello spazio pubblico, mix di funzioni, prestazioni energetiche e ambientali, alloggi in locazione a prezzi calmierati, accessibilità prioritaria sui mezzi pubblici e lungo piste ciclabili. L’interlocuzione con gli imprenditori privati era trasparente sulla base di questi criteri, attraverso percorsi di partecipazione dei cittadini, e a partire da questi obiettivi si è valutato se una proposta di trasformazione fosse coerente o meno con quella visione. 

Pensa che a Roma sarebbe possibile questo tipo di approccio?
Prendiamo il caso noto dello stadio, a prescindere da come la si possa pensare sull’opera e la sua localizzazione, risulta inaccettabile che sia l’operatore privato a decidere che forma e caratteri dovrà avere quella enorme cubatura che sorgerà accanto alla struttura. Semplicemente non si sa nulla del progetto, se non che sarà disegnato in parte da una nota archistar perché, come si è sempre fatto nella Capitale, l’importante è che si rispettino gli accordi sui volumi edificatori, il resto non conta. Ecco, Roma non può più permettersi che il proprio futuro sia deciso da qualcun altro e in questo modo.