Sul prato comune, evoluzione di uno spazio simbolo per la collettività

di Monica Sgandurra

Architetto, paesaggista AIAPP - Associazione Italiana Architetti del Paesaggio - vicepresidente AIAPP LAMS

Un prato non ha confini netti, c’è un orlo dove l’erba cessa di crescere ma ancora qualche filo sparso ne spunta più in là, poi una zolla verde fitta, poi una striscia più rada: fanno ancora parte del prato o no?

tratto da Il Prato infinito in Italo Calvino, Palomar, 1983

Superfici omogenee o ambienti eterogenei, i prati sono spazi che nella nostra società occupano un ruolo importante nel paesaggio urbano: sono, per esempio, “un terreno di confronto strategico tra l’immagine collettiva della democrazia e i diritti individuali sulla proprietà” come li tratteggia George Teyssot descrivendo l’American Lawn, il prato americano, un prato per molti aspetti diverso dai nostri prati mediterranei, il “simbolo di armonia domestica che costituisce l’immagine pubblica della vita privata”, icona del popolo americano.

È comunque in Europa che originariamente queste superfici hanno accolto i cambiamenti culturali e sociali delle comunità, per uso, composizione, ruolo naturale, simbolico e produttivo, ed è sempre nel vecchio continente che questi spazi hanno avuto una funzione di catalizzatore all’interno del tessuto delle città.

Di prati immaginari, prati simbolo, è poi piena la storia dell’arte europea: un prato fiorito, un piccolo universo selvaggio fa da scena alle opere del Beato Angelico nel Quattrocento italiano, così come la Primavera del Botticelli posa i piedi su prato idealizzato, un’idea di piccolo paradiso sulla terra, mentre Leonardo da Vinci fa inginocchiare l’Angelo dell’Annunciazione su una distesa di fiori e nella leggenda de La dama e l’unicorno, il famoso ciclo di arazzi fiamminghi, un tappeto fiorito è il manifesto di un’improbabile biodiversità floreale, un microcosmo vegetale sul quale la storia si svolge.

Se l’arte di quel periodo idealizza queste superfici, le città europee nel trasformarsi accolgono prati pubblici all’interno delle mura o subito al di fuori, in prossimità delle porte urbane. Queste ampie superfici vuote, spesso terreni incolti, a volte sterrati, a volte ricoperti da vegetazione spontanea, si configuravano come spazi dalla forma incerta, senza una caratterizzazione architettonica, aree che spesso accoglievano fiere, mercati, adunanze, feste, insomma spazi multifunzionali nei quali le diverse attività collettive potevano aver luogo senza troppi vincoli, in piena libertà. Si venivano così a delineare spazi nei quali erano le relazioni tra le persone, i piccoli spostamenti e le emozioni collettive, che progettavano e davano forma al luogo, il quale cambiava continuamente senso e struttura, configurazione.

Prati erano chiamati questi tipi di spazio, anche se proprio prati non erano, superfici che accoglievano funzioni collettive in modo anche estemporaneo, occupazioni provvisorie, superfici che una volta cessate le attività ritornavano nello stato di vuoto ricettivo e al tempo stesso silente.

Un esempio storico è quello della città di Ginevra e della sua Plaine de Plainpalais, un grande vuoto di circa 80.000 metri quadrati nel centro della città, un tempo isola del delta del Rodano, poi progressivamente trasformato dopo la bonifica in area a pascolo al di fuori delle mura fortificate e poi ancora spazio per mercati e fiere e oggi, ormai al centro della città consolidata, spazio della comunità urbana nel quale i cittadini compiono i loro riti collettivi facendo cambiare, anche nell’arco della giornata, l’aspetto di questo spazio che ancora oggi produce comportamenti di comunanza urbana. Nella città di Roma i prati come spazio per la collettività erano i Prati del Popolo Romano, un’ampia superficie a Testaccio che si estendeva tra il Monte dei Cocci e Porta San Paolo, una vasta area che fino alla fine dell’Ottocento è rimasta di uso pubblico. In epoca romana questo luogo era destinato allo scarico delle navi che arrivavano nelle banchine della Marmorata mentre solo nel Medioevo divenne un prato comune, ad uso pubblico, nel quale far pascolare le greggi e dove si potevano svolgere riti pagani, come quelli del Carnevale romano, spostato poi a via del Corso da Paolo II, e riti religiosi come il Gioco della Passione, che Rodolfo Lanciani descrive nel 1915, una Via Crucis che si svolgeva nelle strade del Testaccio e che trovava il punto finale della processione proprio in questo prato ai piedi del Monte dei Cocci.

I Prati del Popolo erano anche la meta in città delle famose ottobrate romane, momenti collettivi di festa per celebrare la vendemmia. Qui fino all’Ottocento si estendevano le vigne e nelle grotte ai piedi del Monte Testaccio era conservato il vino per cui i romani che non potevano andare fuori città festeggiavano questo momento importante per la vita contadina con scampagnate, feste, balli e pantagruelici pasti proprio in questo prato a uso popolare.

La tradizione di far festa a Roma mangiando e bevendo in compagnia su un bel prato non era comunque un fatto esclusivamente pagano poiché si racconta che, per invogliare i fedeli un po’ distratti al pellegrinaggio, Filippo Neri, poi santo, a metà del Cinquecento unì alla processione del Giovedì Santo nelle sette chiese più importanti della città un momento conviviale, una merenda offerta dai religiosi nella Vigna dei Mattei, oggi Villa Celimontana. E così di festa in festa, pagana o religiosa, la gente romana ha da sempre frequentato festosamente i prati e la pratica del picnic, del portare le vettovaglie. Disporre il cibo su una tovaglia distesa su una soffice superficie erbosa è uno degli appuntamenti primaverili irrinunciabili per tante famiglie ancora oggi. Questa pratica è talmente diffusa e radicata che con il termine romanata, usato da Ugo Foscolo, parola ormai in disuso ai giorni nostri, s’intendeva proprio una merenda all’aperto, un picnic nel quale ogni partecipante portava del cibo dividendo così l’onere del pasto. E quando poi gli aristocratici aprirono le loro ville, i loro parchi al popolo per il passeggio, la gente romana incominciò a frequentare e abitare quelli che fino a quel momento erano prati calpestati dalla nobiltà, impossessandosi in modo sereno e festoso di uno spazio, o meglio di un bene, di una ricchezza che fino a quel momento era solo appannaggio di pochi.

Oggi la consuetudine del déjeuner sur l’herbe continua in una tradizione rinnovata e con facilità e disinvoltura unisce interessi e desideri diversi: più tempo da passare all’aria aperta, un desiderio maggiore di socializzazione, un contatto più intenso con la natura, tutto consumato in momenti di estraneazione dalla città che si svolgono sopra una soffice superficie, un prato, magari distesi all’ombra di un albero guardando il cielo azzurro e immersi nel silenzio.

I prati delle ville storiche romane come Villa Pamphili, Villa Borghese, Villa Ada e Villa Torlonia nei giorni di festa, ma anche durante la settimana, all’ora del pranzo o della pausa dal lavoro durante la bella stagione, sono ormai costellati da piccoli nuclei di persone che leggono, ascoltano musica, conversano, prendendo il sole, mangiano o festeggiano, sì perché è sempre più frequente, anche sui nostri prati, trovare piccoli gruppi di persone che fanno festa preparando piccoli intrattenimenti giocosi e culinari.

Il fenomeno è ormai tanto diffuso anche nelle città italiane che oggi sono nate all’interno dei parchi, o immediatamente nelle vicinanze, attività specializzate nella preparazione e vendita di tutto il necessario per un picnic, incluso il noleggio del famoso cestino, della tovaglia o coperta e dei cuscini sui quali stendersi. Sempre più frequenti sono poi i piccoli rivenditori mobili di street food di qualità che con la bella stagione escono dai loro esercizi e portano la loro cucina gourmand nelle vicinanze degli ingressi delle Ville.

Il prato romano ha così una rinnovata vita sociale che in alcuni luoghi della città si specializza per frequentazioni di etnie diverse, come i prati del giardino del Laghetto dell’Eur che da molti anni è il posto preferito dalla comunità filippina per ritrovarsi nei giorni dedicati al riposo.

Con questi usi rinnovati o del tutto nuovi non siamo più davanti al prato di valore ornamentale ed estetico; oggi il prato dà forma a un altro e nuovo spazio urbano nel quale la comunità riesce a esprimere in modo estemporaneo desideri collettivi che aspirano al benessere in tutte le sue forme e al contempo forma uno spazio che si fa portatore di un rinnovato senso di condivisione, trasformando la sua superficie in un supporto che perde la sua fisicità per diventare una forma di opera collettiva intesa come contenitore di azioni nel quale le persone trovano un nuovo senso comune del vivere.

Un prato come quello del Circo Massimo diventa poi, in alcuni momenti dell’anno, il palcoscenico di eventi importanti per la città, spazio per concerti, festeggiamenti sportivi o luogo che si trasforma in una performance, uno spazio che accoglie installazioni artistiche temporanee, come quella meravigliosa di Giancarlo Neri, dal titolo Massimo Silenzio del 2007 che invase il prato con 10.000 sfere luminose realizzando così un paesaggio di luci cangianti che danzavano ai piedi del Palatino.

Nuove identità dunque per queste superfici, caratteri costruiti attraverso processi che si nutrono di relazioni e desideri nei quali ritrovare tutta l’indeterminatezza del termine spazio pubblico, spazio che è al tempo stesso dimensione spaziale, luogo e manifestazione di relazioni sociali e culturali; una superficie quindi che rimanda al concetto di vuoto/pieno, nel quale nulla è escluso e tutto può accadere perché sono superfici nelle quali c’è la possibilità della libertà di scelta per tutti, indifferentemente.

E come spazi di libertà i prati di Roma, grazie anche alla scarsa manutenzione, stanno conquistando nuove vite, da prati ornamentali, monospecie, meglio chiamarli tappeti erbosi, si stanno trasformando in superfici sempre più naturali di macroterme che accolgono una involontaria quanto fantastica flora selvatica. Lo vediamo sempre di più nei piccoli spazi stradali, dove un tempo cresceva isolato il povero oleandro che oggi si trova nella splendida compagnia di alte erbe e fiori stagionali portati dal vento, dagli uccelli e anche da una diffusa “distrazione” umana che così trasforma queste composizioni spettinate in piccoli giardini urbani del Terzo Paesaggio.

Il fenomeno dell’incuria, la non cura, il disinteresse verso il tosaerba, sta quindi producendo nella nostra città piccoli brani di vivacità naturale, una biodiversità che in qualche modo s’insinua tra altre azioni di abbandono, ma che grazie proprio al carattere di processo reinterpreta questi spazi con fantasia biologica.

Anche i prati delle nostre Ville storiche stanno entrando in questo processo che, con pochi sforzi ma con un determinato atteggiamento progettuale, potrebbero far nascere nuovi prati nei quali il valore della comunità, questa volta vegetale, potrà accoglie nuovi valori estetici ed etici per la società urbana. Ma ci vuole progettualità e competenza per intervenire con coerenza ed efficacia in questo tipo di processo che dovrà essere costruito da un pensiero che non si deve armare di tosaerba bensì di conoscenza, rispetto e creatività.

Questi prati già esistono e sono i nuovi prati che troviamo ormai da almeno un decennio nei parchi storici londinesi, parigini, newyorkesi, brani di praterie spontanee che proprio dal rapporto con il tappeto erboso compresente, si trasformano nella relazione con essi diventando giardino, ossia da elemento spontaneo mutuano in azione che trasforma in dialettica progettuale il rapporto con altre formazioni vegetali presenti. Tappeti erbosi e superfici di prati spontanei vengono così a coesistere nei parchi in forme a sequenze orizzontali che costruiscono nuove immagini, nuovi paesaggi d’interazione tra elementi artificiali eterogenei, ora un tempietto, ora un campo di gioco, in un’alternanza di spazi nei quali le diversità coesistono in armonia.

Persino nella ricca Svizzera, paese che ha meno problemi nell’affrontare i costi di manutenzione delle aree a verde, si stanno realizzando dentro i parchi storici ampie aree di prati spontanei, superfici erbose tosate dalla voracità di alcune pecore che pascolano beatamente sotto gli occhi divertiti e compiacenti dei frequentatori: una scena idilliaca, una neo Arcadia dall’alto grado di trasmissione sulla capacità del contemporaneo di lavorare sostenendo le proprie azioni di trasformazione anche nello spazio storico.

E se lo spazio pubblico oggi è spazio di comunicazione, mediazione, scambio e valore, ossia spazio della multifunzionalità nel quale l’intensità e la qualità delle relazioni che si producono sono l’espressione del contemporaneo, allora anche i nostri prati, come spazio pubblico in futuro dovranno avere la possibilità di rigenerarsi in forme capaci di accogliere, trasformare, amplificare e, in sostanza, ricevere i cambiamenti della nostra società così come hanno fatto fino ad oggi.