NAPOLI, LINEA 1

Un museo lineare dell’arte contemporanea per rigenerare la metropolitana

di Carlo Gasparrini
Professore ordinario di Urbanistica presso la facoltà di Architettura dell’Università di Napoli Federico II

Il racconto della linea 1 della metropolitana di Napoli come grande opera pubblica è stato declinato in molti modi. Straordinaria opportunità di modificazione della mobilità e delle connessioni intermodali, raccolta esclusiva di architetture d’autore per nuovi paesaggi infrastrutturali o ancora spettacolare sequenza di “stazioni dell’arte”.
Nessuna di queste descrizioni però coglie la rilevanza urbana di tale infrastruttura che va ben aldilà delle intenzioni e delle aspettative originarie e che pone definitivamente fine all’insopportabile ritornello internazionale sui non-luoghi degli spazi della mobilità.


Che la Linea 1 sia probabilmente la più grande opera pubblica realizzata negli ultimi decenni a Napoli e anche una delle più innovative nel quadro internazionale è fuor di dubbio. Lo testimonia del resto il premio “Most Innovative Approach to Station Development” conferito a Londra nel 2009 alla Regione Campania nell’ambito di “Metros 2009”, la più grande manifestazione internazionale sull’industria delle metropolitane alla quale hanno partecipato più di 300 rappresentanti dei sistemi di trasporto su ferro. La tratta tra Piscinola e Piazza Garibaldi è stata realizzata a partire dal 1980, è lunga 18 km e conta 18 stazioni, ha un dislivello di 235 m e una pendenza del 55% dovuta alla necessità di servire le zone collinari della città. Sono in corso di ultimazione i lavori delle stazioni di Municipio, progettata da Álvaro Siza ed Eduardo Souto De Moura, e Duomo progettata da Massimiliano Fuksas, ed è in esecuzione il prolungamento da Piazza Garibaldi all’aeroporto di Capodichino. Si tratta di un’opera che affonda le sue radici nell’ipotesi di “linea collinare” che risale al 1963, quando per la prima volta si immaginò un collegamento in sede propria tra il centro storico e il Vomero, con una nuova funicolare tra piazza Matteotti e piazza Medaglie d’oro che si andava ad aggiungere alle quattro funicolari urbane esistenti. A partire da quella fase, si registra una sempre maggiore specificazione del progetto e la definizione di un tracciato teso a determinare interconnessioni della linea con i sistemi di trasporto collettivo urbani ed extra-urbani e con la rete stradale. Questa visione ha determinato la svolta decisiva che ha segnato il passaggio - anche di denominazione - da “linea collinare” a Linea 1, verso un futuro quadro di trasporti a rete con ambizioni di collegamento di scala metropolitana e regionale. Altrettanto evidente è stata la consapevolezza di voler andare oltre una dimensione settoriale delle opere infrastrutturali, come emerge dalle intenzioni dichiarate dagli Amministratori comunali e regionali competenti, stimolando la qualità architettonica e il connubio con una produzione artistica di eccellenza.Molto meno, però, si è riflettuto sulle relazioni spaziali e funzionali con la città, nell’oscillazione tra la scala architettonica e quella urbana, che sollecitano possibili nuovi racconti alla luce di quanto è accaduto con la realizzazione dell’opera, lo sviluppo di alcuni progetti emblematici e il lento processo di integrazione con lo spazio urbano.
In tal senso un primo racconto, mai delineato in origine ma concretizzatosi nel tempo e nella metabolizzazione dell’infrastruttura in città, può essere quello della metropolitana come “museo lineare” di arte contemporanea. Una sequenza cioè di spazi ipogei - più raramente esterni - che attraversano la città storica e si inerpicano verso la collina del Vomero. Una lunga teoria di luoghi costituiti da complessi incastri verticali di “stanze” multiformi in cui sono ospitate installazioni di molti protagonisti dell’arte contemporanea di livello internazionale. Questi luoghi sono immersi nei flussi quotidiani, orizzontali e verticali, delle centinaia di migliaia di persone che vivono e usano la città. Una folla in movimento incessante che intercetta suo malgrado la “realtà aumentata” dell’esperienza artistica, con gradi di consapevolezza e coinvolgimento inevitabilmente differenziati. In questo flusso ne converge un altro, sicuramente inaspettato quantomeno nelle proporzioni, quello cioè di un turismo italiano e straniero, proveniente da altre città e spesso costituito da incursioni giornaliere, che sceglie di conoscere Napoli a partire da questo grande “museo lineare” lungo 18 km, così come si sceglie in alternativa il Museo di Capodimonte o il Museo Archeologico Nazionale. È proprio questa confusione di flussi - che dilata la tradizionale modalità di fruizione museale da quella specializzata a quella socialmente estesa del nomadismo pendolare - a costituire un rovesciamento radicale del rapporto tra le diverse comunità urbane e internazionali e l’arte contemporanea nelle città.

Certo, questo inaspettato approdo avrebbe richiesto una maggiore consapevolezza iniziale. In particolare una maggiore integrazione tra la dimensione creativa delle architetture delle singole stazioni e quella delle installazioni artistiche, affinché le une e le altre potessero contaminarsi in modo fertile dentro un unico processo progettuale evitando la riduzione dell’opera artistica, in molti casi, ad uno spettacolare “decoro” di spazi pensati per altri obiettivi morfologici e funzionali. Così come sarebbe stato auspicabile un maggiore impulso ad un’arte site-specific capace di conformare la relazione tra la spazialità ipogea e quella open air tradizionale delle strade e delle piazze.

Unica vera e convincente eccezione la stazione di Toledo in cui la collaborazione tra Óscar Tusquets e Robert Wilson ha prodotto un originale dispositivo spaziale che attraversa la geologia della “città porosa” e propone una spettacolare irruzione della luce lungo un profondo e lucido periscopio mosaicato, il crater de luz, che proietta lo sguardo verso la città storica e il cielo. In questo percorso di risalita dal livello del mare al banco tufaceo fino a via Toledo, l’esperienza spaziale e artistica è scandita anche dalla presenza dello splendido mosaico con la “processione” di William Kentridge - replicata in dimensioni monumentali in “Triumphs and Laments” lungo un muraglione del Tevere a Roma - e del suo “Cavaliere di Toledo” che presidia l’accesso alla metropolitana lungo la pedonalizzata via Armando Diaz.

Al “museo lineare” può essere affiancato un altro racconto, quello discontinuo ma molto fertile delle relazioni tra le stazioni e lo spazio urbano, oscillante tra compressione e dilatazione. Laddove queste relazioni mettono in gioco e sollecitano la modificazione di alcune piazze storiche, la realizzazione della Linea 1 si intreccia con l’esigenza di veri e propri progetti urbani che l’attuale Piano urbanistico della città non ha saputo indirizzare, sottovalutando le potenzialità che le stazioni avrebbero potuto avere da un punto di vista urbano. La qualità dei tanti progetti è dunque l’esito pressoché esclusivo delle diverse sensibilità dei progettisti selezionati, anche per quel che riguarda l’interpretazione dei contesti complessi e stratificati in cui i progetti si inseriscono in assenza di un’adeguata domanda pubblica, costruitasi nel tempo con risultati asimmetrici.

L’innesto della metropolitana nel nodo intermodale di Piazza Garibaldi sollecitava diverse domande, mai del tutto esplicitate. Su tutte il ripensamento radicale di uno spazio urbano sospeso in una precaria condizione di “largo” più che di piazza, in cui la coraggiosa scelta compiuta dal gruppo di progettazione - Cameli, Nervi, Cocchia, Battaglini, Zevi, De Luca, Piccinato, Vaccaro - alla metà degli anni Cinquanta, rendeva necessario un disegno di suolo capace di interpretare e rilanciare alcune scelte qualificanti di sessant’anni fa. La decisione di quel gruppo di progettazione di non chiudere la piazza con un fronte urbano, di realizzare un’apertura visiva strategica verso oriente con un’ampia e trasparente pensilina e la concentrazione dei volumi per uffici in una torre laterale, rispondeva a una tensione progettuale consolidata dell’acerba modernità napoletana del Novecento. Riconquistare cioè, almeno dal punto di vista percettivo, quella direttrice urbana verso la piana agricola a est e verso il Vesuvio, che Luigi Piccinato aveva immaginato nel PRG del 1939 con l’arretramento della stazione verso Ponticelli mai realizzatosi.

Alla luce di questa vicenda storica, il progetto di Dominique Perrault costringe ad alcune riflessioni. È sicuramente un’intrigante macchina urbana introversa fortemente connotata da quello stupefacente e metallico intreccio escheriano di scale, reso più profondo dagli specchi abitati di Michelangelo Pistoletto. Ma l’arrivo alla quota urbana in un ampio spazio allungato, sottoposto rispetto al livello stradale, non partecipa a quell’intuizione originaria degli anni Cinquanta, non valorizza la “cattura dell’infinito” e l’ingresso del vulcano nella piazza, oggi parzialmente sporcati dalla brutta selva di grattacieli del Centro Direzionale. 

Ma, anzi, trasforma quello scavo, compensato dalla massa vegetale immaginata sul lato opposto della piazza, in un tassello della macchina introversa più che in un nuovo dispositivo architettonico e urbano capace di dialogare con il paesaggio extra urbano. In questo senso i monumentali alberi-pensiline d’acciaio sembrano l’unico vero confronto, puramente formale e non urbanistico e paesaggistico, con la stazione degli anni Cinquanta e con i suoi pilastri a tripodi rovesciati. Il suo rapporto planimetrico con l’edificio della stazione esistente, tuttavia, è molto rigido ed evita il contatto, ben diverso quindi da quello profondamente integrato proposto dalla pensilina degli autobus, oggi demolita, coerente con le direttrici prodotte dalle geometrie triangolari.

Di altro tenore è l’esito della complessa progettazione della stazione Municipio e della piazza sovrastante. Anche qui il tema era quello di risolvere una connessione intermodale, in questo caso con il porto e con l’attracco delle grandi navi da crociera e degli aliscafi per le isole. A rendere non facile la scelta della migliore soluzione progettuale è però la distanza tra la nuova stazione della metropolitana e quella Marittima esistente. Il progetto di Siza e Souto de Moura produce esiti perfettamente rovesciati rispetto a quello di Perrault per Piazza Garibaldi. Se la stazione ipogea di quest’ultimo è ben più intrigante e coinvolgente nella sua vertigine verticale rispetto alla soluzione minimalista scelta dai primi, che non sembra confermare appieno il loro tradizionale linguaggio semplice ma raffinato, al contrario il ridisegno dello spazio urbano e delle relazioni con l’archeologia, con la dimensione allungata della piazza e con l’architettura moderna della Stazione Marittima di Cesare Bazzani, costruisce un dispositivo architettonico e urbano e una spazialità molto convincenti e rispettosi della stratificazione di questo luogo. I progettisti sanno reinterpretare mirabilmente una direttrice storica della città - non meno importante di quella descritta per Piazza Garibaldi - che da Castel Sant’Elmo si proietta verso il mare, costituendo l’asse strutturante di Piazza Municipio tante volte rappresentato nell’iconografia storica, lungo un percorso visivo opposto, dal mare alla collina. Questa direttrice diviene l’occasione per proporre un lungo tracciato ipogeo che dalla stazione della metropolitana raggiunge il porto, sottopassando la via Cristoforo Colombo e riemergendo nel recinto portuale, così da inquadrare il cannocchiale verso il golfo immaginato da Bazzani attraverso il sollevamento dal suolo della sua Stazione. Il percorso protetto per connettere le due stazioni non si riduce quindi a un tapis roulant aeroportuale ma, partendo dalla riscoperta della linea di costa e del porto di epoca romana, si apre verso i resti dell’edilizia di età angioina e i sistemi di difesa esterni al Castello, illuminato in copertura da una lunga e sottile asola che taglia longitudinalmente il piano di calpestio della piazza, accompagnando e guidando la passeggiata. Nella risalita dentro il recinto portuale il percorso si connette alle due ali della Filtering line progettate dal gruppo capeggiato da Michel Euvé, che ha vinto il concorso internazionale per la riprogettazione del porto, prolungando di fatto il percorso protetto lungo tutto lo sviluppo longitudinale del fronte mare storico. Un esempio felice di raccordo tra progettualità e soggetti pubblici diversi per realizzare un nodo centrale della mobilità su ferro e disegnare uno spazio urbano di grande qualità.

Le immagini, salvo diversamente indicato, sono di Peppe Avallone per M.N. Metropolitana di Napoli S.p.A. e sono fornite da M.N. Metropolitana di Napoli S.p.A.


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