Il cinema di fantascienza - di Gabriele Niola

L’educazione spaziale delle masse.

Una delle intuizioni più affascinanti di Bruno Zevi, almeno per chi è innamorato dell’audiovisivo, è quella degli spazi architettonici come le scene in cui sono ambientate le nostre vite: in che modo cioè un interno (ma del resto anche un esterno) possa condizionare la lettura dei fatti che avvengono in esso. Il cinema lo sa benissimo, la cura con cui sono scelti oppure addirittura disegnati e costruiti i set è finalizzata proprio a questo, a quello che Zevi idealisticamente auspicava come una sorta di educazione spaziale delle masse, parlare cioè al pubblico tramite gli spazi, di fatto aumentando la consapevolezza del loro linguaggio.

Comunemente si pensa che l’architettura, nel cinema, corrisponda alla presenza di belle case o belle costruzioni nei film, cioè l’architettura come cartolina. Villa Malaparte in Il disprezzo di Jean-Luc Godard, Villa Necchi in Io sono l’amore, il Dakota Building in Rosemary’s Baby e via dicendo, addobbi fantastici che tuttavia non dicono molto sullo spazio. Perché una cosa è l’esposizione dell’architettura, un’altra è il suo utilizzo. Come la musica influisce in un film solo se è buona e se è usata nel momento giusto e nel modo giusto, allo stesso modo l’arte architettonica crea nuovo senso, cambia una scena e contribuisce a modificare la percezione che lo spettatore ha del mondo che sta guardando, solo se è usata nel modo giusto. E, sempre come per la musica, c’è l’architettura che già esiste e viene usata dai film e quella costruita appositamente.


I film classici della serie di 007 lo spiegano bene. I nemici, che di film in film James Bond affronta, non vengono mai presentati a parole, non sappiamo niente di loro, in teoria non ci viene detto nemmeno che sono dei nemici, sono semmai gli spazi a dirci tutto quello che dobbiamo sapere.


La Spectre ad esempio è un’organizzazione spietata che si riunisce in una stanza più grande del necessario, dal design molto moderno, uno spazio che lascia le sedute autonome, separate le une dalle altre, e questo perché poi i personaggi devono essere uccisi singolarmente, con la sedia elettrificata: forse il singolo espediente di pura architettura più noto della storia del cinema.
Lo spazio e la sua organizzazione a qualsiasi scala (dal design di un mobile, di una stanza, di una casa o di una città) contribuisce al senso del racconto, di fatto dimostrando allo spettatore la sua funzione, le sue regole e le sue possibilità.
Un genere in particolare ne ha fatto la pietra angolare: la fantascienza. È infatti dovere della fantascienza, o almeno di un buon film di fantascienza, per prima cosa immaginare il futuro e crearlo, immaginare come saremo, e visto che come saremo passa per come vivremo, nulla ci dice meglio come vivremo dei luoghi in cui lo faremo, come saranno organizzate stanze, case e città. Con un po’ di audacia si potrebbe dire che la fantascienza (nel cinema) è il genere che più si nutre di architettura, quello che più celebra l’importanza dell’organizzazione dello spazio nelle nostre vite.
Una storia della fantascienza nel cinema, a partire dagli spazi architettonici, sarebbe un grande passaggio dalla dittatura dei vuoti al dominio dei pieni, capace di riflettere il mutamento delle nostre ansie e paure rispetto al domani.


Come noto il primo cineasta ad intuire il potere dell’architettura al cinema è Fritz Lang con Metropolis nel 1927. Tutto il film nasce da una città, da un viaggio a New York in cui Lang rimane quasi terrorizzato dalla città dei grattacieli.


Il film stesso quindi consiste nell’idea di una città, ovviamente futura, da cui scaturisce un nuovo ordine sociale. Metropolis si sviluppa verso l’alto, piena di palazzoni ai cui ultimi piani sta l’élite, mentre in basso la massa lavora a ritmi disumani per garantirne il benessere. La città di sopra è lo specchio di quella di sotto, solo migliore, e ad ogni personaggio corrisponde un ambiente. Essendo un film muto e non potendo quindi contare sulle parole, ogni dettaglio dell’immagine è usato per spiegare e raccontare, fondando così l’uso moderno dell’architettura al cinema. Il futuro è immaginato a partire dal suo design e dalla densità abitativa che fa la differenza tra chi è ricco e chi è povero. Lo scienziato pazzo è l’unico a vivere in una casetta piccola in mezzo ai grattacieli, il signore di Metropolis cammina in uffici vuoti pieni di design mentre la manovalanza si sposta tutta unita e compatta in spazi stretti. In questo film l’architettura è la maniera in cui il pubblico capisce l’organizzazione sociale del futuro e quali valori sono ad essa collegati.
Gli anni ’50 saranno un’epoca molto fertile per la fantascienza, gli anni perfetti per un genere il cui compito è chiedersi “Cosa ne sarà di noi!?”. E la fobia principale di quegli anni di incubo atomico crescente era la solitudine, il terrore dell’omega man, cioè che la razza umana spazzasse via tutto facendoci ritrovare soli in un luogo che al tempo stesso è riconoscibile ma che ha un che di inquietante proprio per il suo vuoto. Per questo nel 1964 la produzione americana di L’ultimo uomo della Terra, un film di fantascienza/horror diretto da Ubaldo Ragona e tratto dal romanzo di Richard Matheson, porta il protagonista Vincent Price all’EUR per rappresentare un futuro in cui un solo uomo è rimasto vivo e la civiltà umana è completamente estinta, un futuro letteralmente disumano.
L’EUR è filmato come un luogo assurdo e fuori da tutto, dall’architettura impossibile agli occhi del resto del mondo. Sembra di guardare un quadro di De Chirico dall’interno, come se potessimo vedere quegli ambienti da un altro punto di vista.
Non si tratta però solo di una scelta di vuoti, è una desolazione completamente diversa da una normale città americana svuotata, è quella di un’umanità che aveva conquistato e ha perduto. Se non si fosse potuta usare quell’architettura si sarebbe dovuto spiegare in altro modo che quel mondo futuro, prima del collasso, non solo aveva raggiunto delle vette elevate ma aveva anche perso qualcosa in questo movimento. Il vuoto, quel vuoto, non serve solo a rendere il fatto che stiamo assistendo alle peripezie dell’ultimo uomo in assoluto, ma anche dell’ultimo detentore di quella che è stata la nostra umanità (cosa che poi è parte della trama). Successivi adattamenti di questa stessa storia, come Io sono leggenda oppure 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra, hanno preferito mettere i protagonisti in metropoli deserte invece che in luoghi come l’EUR ed è evidente come l’effetto sia diverso, privo della disumanizzazione.
La paura di un futuro svuotato, in cui ambienti poco densi aiutano a raccontare la fine dell’uomo, ha preso così tante strade diverse che si trova anche in un caposaldo della fantascienza post-bellica come 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, uno dei film più efficaci nell’immaginare il futuro. Nella prima parte vengono mostrate scene di vita quotidiana in ambienti quasi vuoti mentre nell’ultima, il viaggio oltre la fisica, Kubrick sceglie di lavorare quasi solo di musica (con le partiture di Ligeti), colori e architettura. Tutto il gran finale gioca il suo senso in un ambiente fuori dal tempo e dalla logica, frutto di arredamenti e dettagli di interni diversi, disposti in modi particolari. Tanto che ad un certo punto c’è anche la grande idea di avere il mezzo spaziale in mezzo alla camera da letto. Quasi un’installazione artistica. È pura architettura sperimentale (e impossibile) applicata al racconto. Mentre ci sono voluti decenni per sviluppare la fantascienza dei vuoti, c’è stato invece un momento molto preciso in cui questo genere ha smesso di immaginare un domani andato male attraverso un’architettura fatta di vuoti ed ha iniziato a fare il contrario.
Negli anni del sovraffollamento del pianeta la fobia più riconosciuta è diventata un’altra, quella di essere troppi, così tanti da vivere in una società in cui non contiamo più nulla, in cui ci si perde.


Nel 1982 Blade Runner operava una rivoluzione potentissima, sovvertendo il mito che identifica la distopia (il contrario dell’utopia) con un pianeta disabitato e troppo razionale e fondandone un altro, opposto, dotato delle caratteristiche che solitamente associamo alla gioia e allo stare insieme.


Caos, chiasso e stimoli visivi diventano negativi, perché in mezzo a quel caos, visto come è organizzato architettonicamente, abbiamo l’idea che l’umanità si perda, che noi ci perdiamo.
Blade Runner ha l’idea di arredare la sua Los Angeles del futuro anche per strada, come fossero degli interni, all’insegna della densità sia umana che visiva. Non solo i mezzi di trasporto hanno un design impeccabile ma l’estetica dei volti, dei costumi e degli oggetti (molto debitrice di quella del fumettista Enki Bilal), ha una strana forma di contaminazione con le suggestioni degli antichi egizi unita a un globalismo asiatico di ritorno. Senza contare che, come in Metropolis, se i luoghi del potere localizzati in alto hanno un design futuristico, quelli in basso, popolari, hanno il design anni ’40 del vero Bradbury Building di Sumner Hunt con i suoi clamorosi interni in ferro battuto che somigliano a gabbie per uccelli.
Ma non solo l’arredamento gioca un ruolo determinante nei film, anche la scelta dei materiali lo fa. Minority Report nel 2001 proseguiva con intelligenza il discorso del futuro affollato, sostituendo definitivamente gli stimoli visivi alle persone. Si vedono spazi pubblici (come ad esempio la metropolitana) in cui l’affollamento pubblicitario è ovunque e personalizzato. Ci sono uomini, ci sono stimoli visivi e tutto contribuisce a una grande densità. La visione futura del film di Spielberg è tra le migliori degli ultimi anni ed è frutto dell’uso di un ampio raggio di consulenti su diverse materie. Per l’urbanistica Peter Calthorpe ad esempio aveva immaginato strade che vanno in verticale per ovviare alla densità e alle esplosioni di folla.
Ancora di più l’architettura ha un peso determinante in questo film grazie a un’idea che nel finale fornisce un senso a tutto quello che abbiamo visto. Minority Report è un film giocato su toni desaturati acciaio e blu, ambientato tra palazzi moderni, in una città in computer grafica, molto moderna, dalle linee nette e geometriche, liscia e spoglia. Poi però quando tutto sarà finito bene, il lieto fine sarà spiegato tramite un’immagine più che a parole. Vediamo i personaggi vessati per tutto il film in un cottage di legno, immersi in un’altra tavolozza di colori, più calda e in un luogo opposto a tutti quelli che ci sono stati mostrati, un luogo più intimo e caldo. In un parola: umano. Un impossibile piano sequenza digitale all’indietro infine mostra che quel cottage esiste in un luogo naturale, unica abitazione in mezzo alla natura.
È una trovata puramente architettonica che proprio tramite spazio e materiali spiega non solo che tutto è finito bene ma anche qualcosa di più, che quelle persone, là dentro, in quello spazio, hanno riconquistato la loro umanità.

 

Autore: Gabriele Niola

In Copertina:

Blade Runner

1982

Manifesto del film

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