Una nuova cultura del recupero

Il recupero del patrimonio architettonico e urbano della nostra città costituisce un tema prioritario per l’Ordine degli architetti di Roma. Si tratta di un ambito sul quale le aspettative di progettisti, investitori, costruttori, amministratori e cittadini sono comprensibilmente alte e sul quale il nostro impegno e la nostra attenzione devono essere massimi. Dal punto di

vista professionale, in particolare alla luce della crisi che abbiamo attraversato negli ultimi anni e dalla quale non siamo ancora usciti fuori, il tema della rigenerazione urbana - com’è stato peraltro detto, nelle occasioni più diverse, dal nostro Consiglio nazionale e dal suo Presidente Leopoldo Freyrie - costituisce una irripetibile occasione di lavoro per l’intera categoria, in particolare per gli studi più deboli, perché di piccole dimensioni o perché in fase di avviamento. Intervenire nel settore del recupero, pur richiedendo una elevata sensibilità culturale e una grande attenzione progettuale, non implica necessariamente il coinvolgimento di grosse strutture operative e può pertanto costituire un importante banco di prova per i giovani che si affacciano alla professione. Diremmo anzi che tale fascia costituisce il gruppo più naturalmente portato per tali tematiche, considerando che, più delle generazioni precedenti, è stata educata a una cultura della sostenibilità e del riuso nell’accezione più inclusiva dei termini. Dal punto di vista del coinvolgento di tutti i diversi attori presenti sulla scena dell’industria delle costruzioni, altro tema fondamentale sul rinnovato panorama contemporaneo, la rigenerazione urbana costituisce poi un ambito di sperimentazione eccezionalmente significativo. Per raggiungere il successo, simili operazioni devono contemperare le più diverse esigenze: in primis quelle dei destinatari, coloro che vi abiteranno e lavoreranno; ma anche delle pubbliche amministrazioni chiamate a gestire in maniera trasparente le procedure di attuazione, a mantenere in molti casi il patrimonio realizzato e a tutelare la qualità storica delle preesistenze (senza assumere atteggiamenti paralizzanti, che spesso determinano effetti che sono l’opposto di ciò a cui si puntava); degli investori, oggi fortemente scoraggiati dalla pressione fiscale sulla casa (che non ha eguali nel resto del mondo e che, al di là della crisi, ha sensibilmente e forse irreversibilmente penalizzato il mercato immobiliare), che devono invece trovarvi i giusti margini di convenienza, qualcosa per sua natura legata al grado di attrattività, anche estetica, dell’investimento e al cui interno rientrano considerazioni di ordine economico ma anche legate a tecnologie e materiali sostenibili, a tempi di esecuzione contenuti e a regole attuative semplici e certe; dei costruttori e dei progettisti, infine, che insieme ai committenti, sia pubblici sia privati, devono imparare a collaborare in maniera innovativa, alla luce della rivoluzione che la generalizzata diffusione del BIM determinerà nei prossimi anni. Dobbiamo fermare, una volta per tutte, il dissennato consumo di territorio che si è irresponsabilmente determinato e si continua, nonostante tutto, a determinare in Italia. Siamo un Paese piccolo, orograficamente e geologicamente fragile e complesso, con una delle densità demografiche più alte al mondo. Non comprendere che lo spreco di territorio è un comportamento insostenibile e gravemente lesivo dei diritti delle generazioni future è insensato. È peraltro paradossale che noi italiani, gli inventori della città occidentale, di un modello di urbanizzazione cui si guarda con estremo interesse e non senza invidia in ogni parte del mondo, ci lasciamo stupidamente andare alla deriva verso un modello insediativo diffuso, basato quindi sull’utilizzo pressoché esclusivo dei mezzi di trasporto privati (le auto) e soggetto a una infrastrutturazione dispersiva, invasiva e mai sufficiente, palesemente in controtendenza sia rispetto alle raccomandazioni che emergono da ogni seria ricerca sull’argomento sia rispetto a quanto si sta cercando di fare in un gran numero di paesi stranieri. Ci sfugge anche un altro punto importante: se la modernità novecentesca - a torto o a ragione non è qui il caso di discuterne - ha postulato un’immagine di città che metteva in larga misura fuori gioco i nostri centri storici, evidentemente inadeguati a tale stile di vita, la contemporaneità ha capovolto la questione. Un tradizionale centro storico ha in sé tutte le carte in regola per essere molto più smart, digitalizzato, efficace e attrattivo di ogni insediamento di nuova edificazione. Qualsiasi vecchio quartiere, con opportuni progetti di retrofitting e di infill, può progredire a livelli inimmaginabili. Gli spazi pubblici, ricorrendo a formule progettuali aperte e partecipate magari sostenute da sistemi di crowdfunding, possono migliorare moltissimo, migliorando a loro volta gli abitanti che li usano. Ma dobbiamo ricordare che una smart city prevede degli smart citizen, il che implica un salto culturale da parte delle pubbliche amministrazioni e soprattutto, prima di tutto, degli stessi cittadini. Basta dunque con l’espansione sui cosiddetti greenfield, spazi verdi da riservare alla natura, all’agricoltura e al tempo libero; sì, invece, alle nuove edificazioni e al recupero dell’esistente sui brownfield, soprattutto quando tali aree hanno subito nel tempo processi di dismissione e abbandono; sì, ancora, a una nuova stagione progettuale all’insegna dell’apertura e del coinvolgimento, anche a costo di qualche piccola perdita in termini di autorialità da parte di noi architetti. Tutto ciò non esclude ovviamente la crescita urbana, anzi: si tratta di un fenomeno fisiologico di cui non dobbiamo aver paura. Le città in generale e l’area metropolitana di Roma, in particolare, devono continuare a crescere. La forte competizione che si è oggi innescata fra le grandi città d’Italia e del mondo alla ricerca di un’attrattività che è requisito essenziale per la loro stessa sopravvivenza, fa sì che le città che non crescono siano prima o poi destinate a regredire. Se Roma dovesse smettere di crescere, crescerebbero altre città al suo posto, sottraendole energie vitali e soprattutto determinando la progressiva perdita delle fasce più creative e produttive (un fenomeno chiaramente avvertito in molti centri italiani, soprattutto al sud). Ma è importante che tale crescita avvenga, prevalentemente se non esclusivamente, proprio su quelle estese aree urbanizzate attualmente in disuso, sottoutilizzate o inadeguate agli standard contemporanei che non mancano nella nostra come in tutte le altre città d’Italia. Va detto poi che l’ambito del recupero costituisce uno dei settori privilegiati della nostra professionalità e ciò ci viene internazionalmente riconosciuto. Gli architetti italiani sono naturalmente dotati di straordinarie capacità di dialogo con i contesti edificati, diremmo anche di una particolarissima sensibilità proporzionale, materica, cromatica ecc. che li mette in grado di progettare e costruire nel costruito meglio di altre culture tecnicamente più avanzate della nostra. Le gigantesche operazioni alla scala urbana condotte nelle maggiori città cinesi, dopo non pochi fallimenti, guardano oggi con molta attenzione proprio a tali nostre, forse innate, capacità. Dobbiamo dunque soltanto liberare le nostre migliori energie creative perché diano risposte credibili alle rinnovate esigenze delle città, recuperando, modificando, sostituendo, densificando e, perché no, verticalizzando (gli ascensori inquinano meno delle auto) un patrimonio edilizio fatto di abitazioni attualmente troppo grandi e costose per le nuove famiglie, che sono invece sempre meno numerose, anzi prevalentemente mononucleari; per una società sempre più anziana e quindi bisognosa di comfort e livelli di assistenza particolari; sempre più multiculturale e che quindi richiede tipologie residenziali diverse da quelle per noi abituali; sempre più nomadica e transitoria; purtroppo oggi anche impoverita e quindi alla ricerca da una parte di soluzioni low cost e dall’altra, contraddittoriamente, di standard abitativi più elevati di quelli pur considerati accettabili, per esempio, nel secondo dopoguerra; e infine sempre più dipendente dai crescenti fabbisogni energetici - ancora oggi soddisfatti ricorrendo pressoché esclusivamente a risorse non rinnovabili - e quindi alla ricerca di nuove soluzioni edilizie a emissioni zero. Su quest’ultimo punto, in particolare, siamo indietro rispetto alle città del nord Europa, segnatamente di area scandinava e tedesca, come rispetto ad altre del mondo, anche molto diverse tra loro, che hanno portato avanti importanti sperimentazioni nel settore: da Singapore a Vancouver, da Bogotà ad Abu Dhabi. Dobbiamo recuperare. Siamo un po’ indietro anche rispetto ad alcune città italiane: si pensi a Trento, Bolzano, Aosta o Ravenna. Anche Milano ha fatto meglio di Roma in questi ultimi anni. Dobbiamo recuperare, ne siamo certamente capaci: lo dimostrano i molti qualificati esempi che abbiamo selezionato per questo numero.

Buona lettura.

Livio Sacchi

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