Società

Cosa significa spazio pubblico in una grande città come Roma? Quali sono le sue declinazioni? Quali le sue prospettive? La città contemporanea ci offre molti esempi di spazio pubblico, con caratteristiche diverse e a volte contraddittorie. È possibile tuttavia individuare i requisiti di base per la valutazione dell’esistente e la sua progettazione? La Carta dello Spazio Pubblico elaborata dalla Biennale dello Spazio Pubblico ci offre una definizione e spunti di riflessione sulle delicate questioni urbane che ruotano attorno a questo tema. Lo spazio pubblico è origine e ragione stessa dell’esistenza delle città come organismo sociale, elemento chiave del benessere individuale e del rapporto fra persona e società. Nello spazio pubblico assumono concretezza e veridicità i principi di uguaglianza e imparzialità fra i cittadini, accomunati di fronte a esso da garanzia di uso comune e gratuità di fruizione. Gli spazi pubblici devono essere accessibili a tutti in maniera indistinta e senza vincoli, devono essere sicuri e aperti, confacenti alle esigenze di giovani e anziani nei loro gradi di abilità fisica e psichica. Lo spazio pubblico è una “bandiera della civiltà, un luogo attraverso il quale la città garantisce i diritti di cittadinanza e apprezza le differenze”, un ambiente dall’alto valore sociale nel quale conflitti e disparità sono naturalmente ridotti o annullati.

Ma cosa succede quando uno spazio potenzialmente pubblico è sottratto alla collettività? Se lo spazio non-privato non è in una condizione di fruibilità per il cittadino manca fatalmente di attenzione e controllo e si trasforma nel luogo del degrado e dell’inadeguatezza. Allo stesso tempo il suo abbandono rappresenta una possibilità di riscatto nel panorama del consolidamento e dell’aggiornamento della qualità urbana. In questo senso lo spazio pubblico è matrice fondamentale delle attività che hanno come sfondo la vita sociale e delle azioni sul territorio. Di conseguenza la sua considerazione non può essere scissa dalle questioni inerenti l’ambiente sociale e urbano. Viceversa ogni operazione di rigenerazione urbana, gestione del verde e della mobilità, deve porre in primo piano il tema della qualità e della utilizzazione dello spazio pubblico come elemento indispensabile per la sicurezza e la coesione sociale. Nelle conferenze urbanistiche, nella progettazione partecipata e nelle azioni preliminari agli interventi è quindi necessario operare mediante un’analisi omnicomprensiva dei territori che ne salvaguardi e ne valorizzi le componenti pubbliche e garantisca la sintonia del progetto con il contesto, del nuovo con l’esistente e del “prima” con il “dopo”. Soverchiare il quadro esistente può significare inficiare quanto di collettivo e condiviso ne caratterizza i contesti fisici e sociali, i quali vanno invece migliorati apportando benefici alla comunità a breve e a lungo termine. In alcune progettazioni urbane della realtà capitolina tali principi sono stati considerati cardine delle scelte condivise e identificati con gli obiettivi stessi degli interventi previsti. Ne è un valido esempio il Progetto Urbano San Lorenzo, proposto nel 2006 e attualmente in corso di rielaborazione da parte dell’Amministrazione, la quale ha agito con decisione nel riprendere un percorso fermo da alcuni anni. Il piano è stato rivisto e aggiornato tenendo conto di variazioni di assetto e novità emerse nell’ultimo quadriennio, al fine di consentire il rientro degli interventi in un processo integrato e coerente, nel quale la tutela delle peculiarità del luogo riveste un ruolo centrale per la rinascita dell’area. Una rinascita che, secondo le linee guida impostate, avverrà non solo mediante realizzazioni ex novo, ma anche attraverso il riutilizzo e la revisione del patrimonio infrastrutturale inutilizzato. Un programma non del tutto dissimile da quello attuabile in zone militari urbane in fase di dismissione, come alcuni fra i Forti del campo trincerato romano, e in strutture demaniali passate a Roma Capitale, oggi al centro di una consistente opera di riqualificazione con la partecipazione cittadina. Si tratta di una serie di riconversioni attuate con lo scopo di incentivare il settore edilizio locale, lavorando sulla modificazione dell’esistente mediante opere di densificazione ed evitando il consumo di nuovo suolo. Un esempio pilota di questa possibile strategia dello spazio pubblico è il progetto della Città della Scienza da realizzarsi nell’ex stabilimento militare di macchine elettriche di via Guido Reni, nel quartiere Flaminio. Tale intervento completerebbe la trasformazione dell’area flaminia in una polarità culturale urbana di scala europea della quale già sono parte l’Auditorium di Renzo Piano e il MAXXI di Zaha Hadid. L’obiettivo è trasformare la fatiscente zona militare in spazio pubblico polifunzionale. Un centro di promozione, sperimentazione e diffusione di rilevanza internazionale che accoglierà in ambiti per la cultura il sapere scientifico e tecnologico nelle sue possibili articolazioni, rendendolo accessibile al grande pubblico della Capitale e al turismo. Nella Città della Scienza sarà integrato un complesso multifunzionale residenziale, commerciale e terziario che consentirà il reperimento di una parte dei fondi necessari alla realizzazione delle opere pubbliche. Il polo culturale occuperà circa 27.000 mq, 6.000 mq saranno destinati alla realizzazione di 70 alloggi sociali, 29.000 mq ospiteranno 200 residenze private. Sono previsti inoltre 5.000 mq di spazi commerciali e altrettanti di strutture ricettive, oltre ad attrezzature pubbliche di quartiere. In sintesi un progetto potenzialmente risolutivo dell’assetto dell’area e un contributo alla crescita economica, sociale e culturale del quartiere e di un quadrante urbano di importanza strategica per la città che ha una lunga storia di piani e progetti, da Del Debbio a Moretti. Seppure spesso in stato di abbandono, le strutture demaniali militari si trovano in una condizione preferenziale rispetto ad altri spazi pubblici di incerto futuro come molte sale cinematografiche di Roma. La concorrenza estera, lo sviluppo della televisione e lo scarso supporto ricevuto dalle strutture pubbliche hanno ridotto enormemente il volume produttivo del cinema italiano dopo il grande successo internazionale del dopoguerra. Insieme al declino del settore anche le sale cinematografiche hanno sofferto una crisi di pubblico che ne ha portate molte alla chiusura o alla trasformazione in multisala. In circa vent’anni oltre trenta sale hanno chiuso l’attività e versano in uno stato di abbandono oppure sono state convertite in sale bingo. Nonostante le proteste delle associazioni di cittadini, il cinema, spesso edificio di elevata qualità architettonica, stenta a conservare il proprio ruolo di baricentro e punto di riferimento del quartiere. È il caso dei cinema trasteverini America e Garden, entrambi al centro di rivendicazioni, occupazioni e polemiche. Alcune azioni di tutela tuttavia sono state intraprese dalle autorità. Il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali ha emanato una direttiva che vincola la destinazione d’uso dei cinema italiani di interesse storico e culturale. Le sale sorte prima del 1980 potranno essere ristrutturate e adeguate a nuovi usi, alla condizione che almeno il 50% dello spazio venga assegnato ad attività culturali. Non è chiaro però a quali destinazioni d’uso si faccia riferimento. Pur essendo già stato approvato dal Campidoglio, il progetto di riconversione del Cinema Metropolitan è al centro di polemiche in quanto il nuovo proprietario, un’illustre firma nel settore della moda, ne farebbe un atelier destinando solo il 15% a sala cinematografica. Al di là delle polemiche rimane l’interrogativo sul futuro di questi spazi, spesso in stato di fatiscenza e non più in grado di competere con il mercato cinematografico. A fronte di una scelta di conservazione integrale che ne preserverebbe l’architettura si pone infatti il problema di un inevitabile cambio di destinazione d’uso, unica strada per evitarne l’abbandono. Ancora una volta il tema della riqualificazione dello spazio pubblico si pone in continuità con quello del finanziamento di opere importanti da parte di privati e imprenditori. Una contiguità che a Roma ha reso realizzabili opere altrimenti impossibili come il restauro del Colosseo. Il Decreto legge Art Bonus, approvato dal governo italiano nella primavera scorsa, riconosce e incentiva le sponsorizzazioni private come la più auspicabile forma di finanziamento per il recupero dello spazio pubblico, introducendo una misura che permette a chi investe nel patrimonio storico di detrarre fiscalmente in tre anni il 65% dell’importo versato. 

Una rivoluzione in ambito culturale che apre le porte alle donazioni da parte dei singoli e delle imprese, anche a fronte di un sempre cospicuo rientro pubblicitario. Parallelamente, i responsabili del bene culturale pubblico avranno l’onere di vigilare affinché l’intervento dei privati non vada a snaturare ciò che si auspica debba mantenere la propria identità storico monumentale. Anche il restauro della Fontana di Trevi sarà l’occasione per allestire un cantiere innovativo che permetterà la visita del capolavoro settecentesco del Salvi anche durante i lavori, grazie alla presenza di un ponte panoramico. I turisti potranno passeggiare lungo una lunga passerella e avvicinarsi alla fontana come mai prima d’ora, mentre lungo la recinzione del cantiere saranno installati due grandi schermi per illustrare le fasi del cantiere e la storia del monumento. L’intero intervento durerà sedici mesi e assorbirà una spesa di oltre 2 milioni di euro, interamente sostenuta da una casa di moda italiana. Una sponsorizzazione privata che, senza gravare economicamente sui cittadini, consentirà a Roma Capitale di portare a compimento un restauro necessario da molto tempo. 

Sulla scia degli accordi stipulati per la sponsorizzazione del restauro del Colosseo e della scalinata di Trinità dei Monti, il Sindaco Ignazio Marino ha definito una intesa con la famiglia reale dell’Arabia Saudita. L’amministrazione capitolina si impegnerà nell’organizzazione di mostre temporanee nelle città arabe, esportando e facendo conoscere il patrimonio culturale romano in Medio Oriente, mentre la famiglia reale si incaricherà di creare un fondo per il restauro di alcuni spazi pubblici monumentali e delle aree archeologiche della Capitale.

Domenico Cecchini, Nico Savarese, Mario Spada: Ripensare Roma a partire dagli spazi pubblici

Domenico Cecchini Presidente INU Lazio
Nico Savarese Architetto e Urbanista
Mario Spada Architetto e Urbanista

“Contribuire a creare una circolarità virtuosa tra norme, progetto, costruzione e gestione dello spazio pubblico e ricostruire relazioni di sistema”. È l’obiettivo della Biennale dello spazio pubblico, la cui terza edizione si terrà a Roma nel maggio prossimo. Abbiamo chiesto agli urbanisti e fondatori Mario Spada, Domenico Cecchini e Nico Savarese, di parlarci dell’Urbe e dei mutamenti che servirebbero affinché diventasse più a misura di cittadino. 

Qual è la vostra idea di città e quanta distanza c’è con Roma?

Mario Spada: Una città equa, dove si respira aria di welfare, senza gli squilibri attuali, con servizi funzionanti e l’uso dell’auto ridotto dell’80%. Una città utopica, molto distante da Roma, che è cresciuta come un albero storto non facile da raddrizzare. Per capire i motivi occorre focalizzarsi sull’alternarsi delle classi dirigenti dal dopoguerra in poi. Anche ora, con le critiche a Marino, sembra che qualsiasi cosa si faccia non riesca a incidere sulla città.

Domenico Cecchini: Roma con i suoi 128 mila ettari di territorio è grande come le nove maggiori città d’Italia. è una metropoli di 4 milioni di persone, difficile e complessa, più abituata a vedere i lati negativi che positivi. Le aree metropolitane sono l’ambiente in cui vive oltre la metà dei cittadini: un ambiente costruito da noi, di cui dobbiamo prenderci cura. A partire dagli spazi pubblici, essenza e struttura della città. Se sono ben tenuti, accoglienti, inclusivi, tutta la città è più bella, giusta, sostenibile. La mia città ideale è quella dove si torna a curare gli spazi pubblici.

Qualche anno fa abbiamo fondato la Biennale proprio perché la città moderna nasce con una rinuncia tragica allo spazio pubblico. Una rinuncia che dura fino ai giorni nostri, da superare. Un esempio? La stazione Termini: un capolavoro dell’architettura contemporanea sfregiato da pubblicità e negozi che nascondono le mura serviane e distruggono il dialogo tra antico e moderno. 

Nico Savarese: Un ambiente antropico integrato nel suo territorio. Sarei propenso a riutilizzare la vecchia definizione di città-territorio: grandi metropoli che si disaggregano e aree rurali che si organizzano in forma reticolare. Potremmo considerare la città e il suo territorio come una lingua parlata dalla comunità attraverso ciò che le persone fanno, muovendosi al suo interno e usandola. Lo spazio pubblico ha da sempre dato forma alla città. Bisogna tornare a una pianificazione basata su come conformare lo spazio pubblico, sia quello direttamente gestito dall’amministrazione locale sia quello negoziato nelle operazioni immobiliari private. Alcuni dei casi contemporanei più rilevanti, e non preventivamente pianificati, ci vengono offerti da situazioni paradossalmente opposte ed estreme: Berlino grazie all’eredità lasciata dal socialismo reale; Hong Kong grazie a una speculazione debordante che ha obbligato le autorità locali a contrattare ogni metro quadrato di spazio pubblico. In entrambi i casi, ha assunto una configurazione molto interessante: uno strato fluido, continuo e pervasivo, che riconnette intere parti del tessuto urbano. La strada, il luogo per eccellenza della mobilità, è l’elemento fondamentale su cui tornare a ragionare. 

Come tutelare l’identità storica di Roma e come lavorare sullo spazio pubblico considerando il rapporto tra la storia e la necessaria innovazione nei modi di vivere lo spazio pubblico?

M.S.: Per la tutela del patrimonio è necessaria un’azione di divulgazione del suo valore, in termini culturali ed economici. Un’iniziativa di successo e potenzialmente replicabile è lo spettacolo sul “Foro di Augusto”. Nel quotidiano occorre rendere compatibili la storicità dei luoghi e lo stile di vita contemporaneo. Vent’anni fa, con la pedonalizzazione di piazze e strade storiche, è iniziato un lento processo resiliente, che oggi continua con gli impegni dell’amministrazione, giustamente intransigente anche sull’occupazione di suolo pubblico. Esistono comunque anche attività per addizione, cioè usi temporanei degli spazi come l’Estate romana.

D.C.: L‘identità storica di Roma è molto connessa all’archeologia, un tema che deve diventare più ampiamente condiviso. Secondo uno studio che conducemmo per il I Municipio, tre quarti degli spazi pedonali del centro storico sono aree archeologiche: il loro uso è un tema di tutti, non solo degli archeologi. Ricordo un breve periodo in cui era stato riaperto il passaggio da via della Consolazione ai Fori e si poteva andare liberamente a piedi da una parte all’altra della città. Secondo la mia esperienza, l’unica vera garanzia di tutela è la riappropriazione culturale: se nelle scuole i bambini conoscono la storia e frequentano l’archeologia, ne capiscono molto bene la bellezza e ne diventano, da adulti, i primi difensori.

N.S.: Per Roma è un tema fondamentale, perché evidenzia il rapporto tra città antica e contemporanea. Esistono casi che dimostrano la fattibilità e la sostenibilità di interventi in aree archeologiche, in cui fruizione aperta e corretta musealizzazione sono in equilibrio. Nella città antica, i grandi spazi pubblici attrezzati erano recintati e trattati come spazi funzionali a sé stanti. Per quanto riguarda la città moderna, c’è una stupenda definizione di P. Wolf del boulevard haussmanniano, estendibile a gran parte dell’urbanistica ottocentesca (quartiere Prati a Roma): “un corridoio di accesso decisivo per assicurare valore commerciale alla proprietà privata e pubblica che ad essa fa capo”. E la città futura? Tutta da ripensare. La Biennale vuole promuovere l’idea che la sperimentazione in vivo e la trasformazione di parti di città in una sorta di living lab dell’innovazione urbanistica possano avere un ruolo chiave per ridefinire il rapporto tra spazio edificato e non, tra spazio pubblico e privato.

I cittadini faticano ad avere cura dello spazio pubblico, cosa si può fare affinchè i romani si riappropino di questi spazi che costituiscono il bene comune più pregiato della città?

M.S.: La vita quotidiana contemporanea tende a ridurre lo spazio pubblico fisico. Piazze e strade hanno perso i valori di socialità, sostituite da reti e piazze digitali. Ma sorgono spontaneamente nuclei di resistenza che si riappropriano di spazi fisici degradati, ricostruendo relazioni sociali di prossimità; sono iniziative che vogliono ripristinare una socialità fisica. Di fronte a una sostanziale mancanza di fondi, la soluzione è il ricorso alla sussidiarietà, in altre parole l’affidamento a privati prevalentemente di tipo associativo. È un aspetto importante della cura degli spazi pubblici, a patto che non sia un declinare della pubblica amministrazione dalle sue responsabilità davanti a tutti i cittadini.

D.C.: Questa “fatica” nella cura dei beni comuni non è una novità, ma un problema storico-culturale di fondo oggi riflesso in spazi pubblici degradati. Sono aspetti importanti di cui tutti, urbanisti inclusi, devono occuparsi. La via d’uscita non è in modelli né statalisti né privatisti, ma nella partecipazione attiva e strutturata di chi usa i beni comuni. 

N.S.: La domanda può essere intesa in due differenti modi, a seconda che la “cura” sia intesa in senso “fruitivo” o “gestionale”. Credo, però, che i due aspetti siano correlati. A Roma ci sono spazi di intensa frequentazione sociale, diurna e notturna: le piazze storiche, le strade a elevata concentrazione commerciale e altri luoghi di incontro collettivo. Le altre strade, specie quelle dei quartieri periferici e residenziali, sono invece luoghi abbandonati e spesso degradati. D’altra parte, come è pensabile che un cittadino si appropri di una strada quando è invasa da spazzatura e auto parcheggiate sui marciapiedi? Alla Biennale sono arrivate varie proposte che sottolineano il problema della sicurezza e dell’inclusione globale; il che significa ridisegnare la rete stradale nei suoi rapporti tra spazi pedonali, percorsi ciclabili e carrabili, parcheggi, aree verdi. 

Innovazione tecnologica, smart city, nuovi device che consentono di interagire diversamente con l’ambiente circostante: l’evoluzione delle forme di comunicazione e informazione modificherà il concetto di spazio pubblico?

M.S.: Gli orari elettronici alle fermate che indicano i ritardi sono utili, ma forse è meglio un cartello che dice che ogni dieci minuti passa l’autobus, come a Berlino: vuol dire che il sistema funziona. Una città è poco intelligente anche se usa video e telefonini ma è intasata. In generale comunque sono favorevole alle nuove tecnologie. Un esempio sono gli open data: nel settimo municipio, ci sono solo sette persone che si occupano di edilizia privata, ma fanno sei mila pratiche all’anno con gli open data. È un sistema trasparente che impedisce l’abusivismo; un fatto di democrazia ma anche di efficienza della pubblica amministrazione.

Il problema delle nuove tecnologie è che stanno individualizzando la vita delle persone, quando invece andrebbero usate per ricostruire il rapporto con gli spazi fisici.

D.C.: L’informatica può offrire grandi occasioni di crescita; ma è anche vero che 30 anni fa si diceva che il problema della mobilità si sarebbe risolto con il telelavoro e non è stato così. La città fordista aveva picchi di traffico più definiti, mentre quella di oggi ha una distribuzione del traffico diversa, quasi piatta: posso lavorare a casa ma poi esco, la domanda di mobilità non si riduce, addirittura può aumentare e con più gradi di libertà. Le nuove tecnologie sono importanti e spesso portatrici di miglioramenti. Ma l’uso dello spazio pubblico fisico, reale, non virtuale, e il ritrovarsi tra persone vere, in carne e ossa, resteranno tema centrale.

N.S.: Pur essendo da sempre fautore delle nuove tecnologie e cultore appassionato di fantascienza, riconosco che l’innovazione tecnologica, dalla prima rivoluzione industriale alla diffusione di massa dell’automobile, ha generato molti più guai che vantaggi per le città. Un buon 50% delle innovazioni del modello smart city sono in realtà pensate e realizzate per tamponare i problemi nati in precedenza. Le nuove tecnologie infotelematiche possono quindi migliorare la conoscenza e la fruizione delle città, ma non ne enfatizzerei troppo la portata rivoluzionaria.


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