Mario Spada: La Biennale, vita pubblica e istituzioni democratiche

La quarta edizione della Biennale dello spazio pubblico, svoltasi nelle giornate dal 25 al 27 maggio scorsi, ha ricevuto l’importante riconoscimento di una Medaglia da parte della Presidenza della Repubblica. Cosa significa per i promotori dell’evento l’attribuzione di questo riconoscimento?

«Al di là dell’orgoglio e della soddisfazione, mi piace pensare che siano stati colti gli elementi di straordinarietà, innovazione e apertura culturale che hanno animato la Biennale, dando prova di una rinnovata fiducia nella vita pubblica e nelle istituzioni democratiche. Il messaggio emerso in modo univoco dalla Biennale e in particolare dai 26 workshop che l’hanno animata è che la rigenerazione degli spazi pubblici può rappresentare l’opportunità per una riconquista democratica delle città e dei territori.  Indipendentemente da questo importante riconoscimento, siamo molto soddisfatti dei dati relativi alla partecipazione. La Biennale ha visto infatti la presenza di circa 1.500

persone, tra le quali rappresentanti di piccoli e medi Comuni, di università, di comitati di cittadini, di associazioni culturali, delle sezioni regionali dell’INU e degli Ordini provinciali degli architetti».

Qual è il significato di questa ampia partecipazione?

«Ritengo che l’adesione ottenuta dimostri l’esigenza di far conoscere la propria realtà e, al tempo stesso, di partecipare alla costruzione di reti tematiche che fungano da sussidiarietà programmatica alle istituzioni politiche, le quali a tutt’oggi sembrano incapaci di offrire al paese una visione strategica, avvitate in una spirale autoreferenziale che le allontana dal comune sentire. La call for proposals “Fare spazi pubblici” lanciata a dicembre aveva proprio un duplice obiettivo: da un lato esplorare e comunicare le numerose iniziative concrete portate avanti a livello territoriale da diversi protagonisti quali piccoli e medi Comuni, associazioni professionali, università, associazioni culturali, comitati di cittadini; dall’altro favorire la costruzione di reti informali per uno scambio reciproco di conoscenze».

La Biennale si pone quindi come punto di raccordo e di promozione; sarebbe un peccato che la sua funzione si esaurisse nelle tre giornate di svolgimento

dell’evento.«Sicuramente sono confluite nella Biennale esperienze importanti che avrebbero voluto e dovuto trovare uno spazio ben più ampio di comunicazione; all’inevitabile compattamento degli interventi può sicuramente supplire un uso intelligente delle tecnologie digitali.A questo proposito, una delle proposte accolte è quella di wikispaziopubblico, un’associazione impegnata nell’innovazione digitale che ha messo a disposizione una piattaforma wiki che ha consentito di aprire laboratori on line. Una piattaforma libera, aperta, che ha creato piccole comunità tematiche che potranno rafforzarsi ed estendere la rete ad altri protagonisti interessati a sviluppare e confrontarsi su un tema specifico.Uno spazio con enormi potenzialità, di cui forse non sono ancora del tutto consapevoli le stesse comunità che si sono formate e che potranno continuare a confrontarsi oltre i limiti temporali di questa edizione della Biennale».

Quali sono le tematiche più significative emerse nel corso di questi tre giorni?

«Il ventaglio è sicuramente molto ampio. Si è parlato di mobilità, di multiculturalità, di disastri ambientali, di verde e corsi d’acqua, di periferie, di accessibilità.

Queste due ultime tematiche ritengo che siano particolarmente rilevanti. Le periferie, perché su di esse si condensano i principali problemi di degrado e insicurezza, ma sono al contempo i luoghi di vita di giovani generazioni creative, disponibili a impegnarsi per migliorare le condizioni dell’ambiente in cui vivono.

A questo si aggiunge, a livello istituzionale, la pubblicazione del bando nazionale sulle periferie, che ha dato un po’ di fiato alla programmazione dei Comuni.

Sull’accessibilità, va purtroppo detto che le nostre città hanno registrato un peggioramento in questo senso.

Penso per esempio proprio allo splendido luogo dell’ex mattatoio, che ha ospitato la Biennale, che non è accessibile ai disabili. Come è possibile, in un luogo oggetto di un importante progetto di riqualificazione? La risposta è nel malfunzionamento della macchina amministrativa, ancora rigorosamente divisa in comparti generalmente non comunicanti tra loro.

Considero questo uno dei più gravi problemi che impedisce di raggiungere gli standard europei di vivibilità urbana. La macchina amministrativa dovrebbe abbattere le barriere che separano le competenze e mettersi nelle condizioni di lavorare per obiettivi. È un problema di cui soffrono soprattutto le grandi amministrazioni».

Tra le varie realtà presenti alla Biennale, quale è stato l’apporto delle realtà provenienti dall’estero?

«Abbiamo ospitato esperti provenienti da altre parti del mondo, in buona misura accomunati dalla partecipazione a eventi internazionali come l’ultima Conferenza di Quito organizzata da UN-Habitat, partner di ogni edizione della Biennale.  A questo proposito, non si può purtroppo non rilevare un certo distacco delle politiche nazionali dai contesti internazionali.  Ho vissuto personalmente come funzionario comunale il promettente periodo seguito alla Conferenza di Rio del 1992 sullo sviluppo sostenibile, che portò in Europa alla redazione della carta di Aalborg. Una fervida attività coinvolse numerosi Comuni impegnati a redigere piani di azione ambientale nell’ambito del programma Agenda 21, sembrava che finalmente la sostenibilità ambientale fosse entrata organicamente nell’agenda urbana nazionale e in particolare in quella delle città.  Anche in questo campo dobbiamo in realtà constatare un arretramento sostanziale: se da un lato registriamo un fervido dibattito teorico, che ha portato a sostituire il concetto di sostenibilità con quello di resilienza, concretamente i passi avanti sono davvero pochi. In questo senso auspico una maggiore integrazione tra le raccomandazioni degli organismi internazionali e le politiche nazionali».

In questo contesto, qual è il contributo che può dare la Biennale? Come rendere produttivo un incontro di così tante esperienze?

«Rivedendo criticamente le precedenti edizioni, abbiamo tentato di raccogliere i frutti di queste giornate di lavoro in due tavole rotonde dei coordinatori dei workshop. Abbiamo chiesto loro di sintetizzare le indicazioni emerse in un documento che riassuma, in riferimento ai temi affrontati, le principali criticità, i fattori di successo, al fine di suggerire possibili innovazioni sul piano progettuale, gestionale, legislativo.  La rigenerazione urbana tocca i gangli vitali di un organismo vivente, provoca inevitabilmente conflitti che, se ben gestiti, garantiscono la fattibilità e aumentano la conoscenza. La rigenerazione può essere l’opportunità per realizzare una conoscenza diffusa e circolare che può configurarsi anche come riconquista democratica della città».

E rispetto al futuro, quali sono le prospettive della Biennale?

«La crisi economica ha fatto passare l’idea che alcuni spazi pubblici debbano essere privatizzati. La Biennale per sopravvivere avrà bisogno di risorse e quindi potrebbe anch’essa essere oggetto di tentativi di privatizzazione. Ricordiamoci che, nel caso perderebbe la sua caratteristica più genuina, quella di essere essa stessa uno spazio pubblico, libero e aperto. Su questo dobbiamo riflettere, anche se al momento posso solo porre il problema, non sono in grado di dare la soluzione».