Roma come un grande paesaggio - La bellezza e la forza di un disegno complesso

di Fabio Di Carlo

Architetto, professore associatodi Architettura del Paesaggio

Come altre città d’eccezione ma un po’ abbandonate, Roma è bella malgrado tutto. Malgrado i suoi cittadini e amministratori, i suoi detrattori, i suoi delinquenti e i diversi false friend. Forse i romani sono antropologicamente lontani da una consapevolezza e una visione dei propri paesaggi, come in una sorta di presbitismo da eccessiva vicinanza. Molti si preoccupano della sua pulizia e del degrado, del disagio sociale e delle sue manifestazioni, della sua ecologia, dell’ambiente e altro. Ma pochi pensano a un’evoluzione di Roma attraverso i paesaggi, che invece oggi sono consumati da tutti, sono erosi dall’uso al pari di un centro commerciale. Perfino la cinematografia spesso la riduce a immagini stereotipate, da cartolina: un po’ slabbrata e sporca, ma con un grande fascino. Un false friend appunto, come lo è molta pubblicità che ne utilizza gli scorci come fondali quasi finti.

La forza dei paesaggi roma

Roma ha un paesaggio di base strutturalmente forte, con una geografia tra le più belle e complesse. Capace di resistere alla disattenzione e alle aggressioni attraverso le relazioni forti tra i suoi elementi, e che riemerge quasi come l’Araba Fenice a molti tentativi di frammentazione e cancellazione.

Una geografia di base fatta di colli, da Sud e da Nord, ripidi solo a brevi tratti, che da un lato degradano sul Tevere e dall’altro hanno generato quel sistema di ondulazioni dolci e di forre più drammatiche che hanno formato l’Agro Romano, un paesaggio di grande interesse sempre più oggetto di attenzioni ma dal destino non in tutto chiaro.

C’è il Tevere, obbligato dai colli in riva destra e in riva sinistra, con l’Aniene e molti affluenti secondari. Un fiume che si confronta poco con la città, pur restandone l’asse portante e il principe di un sistema di acque di grandissima ricchezza e complessità, fatta di artifici infrastrutturali, di fuochi semantici come le fontane, ma anche di fossi, canali artificiali e acque segrete.

C’è una biodiversità altissima e alcune aree residuali originarie che, quasi come un’archeologia vivente, ci parlano della sua storia naturale. Molti studiosi, non solo italiani, sono colpiti da tale ricchezza e vi dedicano grande attenzione.

C’è un immenso patrimonio, che anche lui ci colpisce per la diversità ancor più che per la quantità e la qualità. Una diversità che è tale grazie al confronto continuo tra edificazione e geografia: trovare in ogni periodo storico soluzioni conformi alle piane, ai pendi dolci o più ripidi, ai venti e al deflusso delle acque, generando viste infinitamente variate e inusuali, come quelle che colpirono il Piranesi e molti altri.

L’esercizio della linea retta è assai difficile a Roma.

Paesaggi mancanti

La nostra città nel XX secolo ha prodotto pochi nuovi paesaggi, affidando la sua dotazione prevalentemente all’acquisizione di ville storiche. Il sistema dei parchi e del lago dell’EUR e l’opera tutta di Raffaele de Vico1, sono di certo un’eccezione e hanno fortemente caratterizzato l’immagine complessiva di Roma, ma parliamo di realizzazioni tra gli anni Trenta e Sessanta. Sono state istituite numerose aree protette, ma definirle “parchi” appare eufemistico in termini di qualità della fruizione. Un sistema che fa di Roma una delle città più verdi, ma anche quella dove questa ricchezza non ha ricadute evidenti. Abbiamo alcune nuove piazze realizzate insieme a nuovi poli culturali. Di fatto, ogni volta che qualche collega straniero ci chiede di indicargli “paesaggi contemporanei”, cadiamo in profonda crisi, perché oltre questo, poco o nulla. La città non ha inoltre personale e strumenti idonei alla gestione dei paesaggi esistenti e manca un regolamento del verde, nonostante le azioni di molti, inclusi gli ordini professionali e le associazioni quali l’AIAPP, che da tempo lavorano su questo.

Una comunità

Analogamente ogni volta che si parla di progetto di paesaggio, per una misteriosa anomalia, sembra necessario dover iniziare da zero. Sembra che i paesaggisti non esistano, che non ci sia un consolidato di opinioni e di riflessioni attive sul piano accademico e su quello professionale. Sembra che le infinite occasioni di studi, conferenze ed eventi non ci siano mai state; che pochi conoscano la Convenzione Europea del Paesaggio e le sue declinazioni italiane, assieme all’articolo 9 della Costituzione. È esattamente il contrario di altri paesi in condizioni economiche e culturali omologhe alle nostre, dove il progetto di paesaggio rappresenta una realtà, dove realizzare nuovi progetti, mantenere e far evolvere il patrimonio esistente, quanto gestire tutte le problematiche paesaggistiche del territorio, fa parte di una prassi quotidiana per la quale si fondano aziende ed economie, e si costruiscono competenze di vario livello.

Esiste invece una numerosa comunità di paesaggisti, professionisti e studiosi, che oggi lavorano a partire dai lasciti culturali di persone di primissimo piano, come De Vico e Francesco Fariello2. Poi altri maestri come Vittoria Calzolari, appena scomparsa, e il marito Mario Ghio, che con grande anticipazione prefiguravano ragionamenti di avanguardia sul paesaggio, rispetto ai quali il Landscape Urbanisme forse non apparirebbe come una novità3. Penso a Ippolito Pizzetti, con molti adepti intorno a lui per l’infinita conoscenza scientifica e culturale che dispensava. Salvatore Dierna, promotore degli studi del progetto per l’ambiente al paesaggio, fondatore con Vittoria Calzolari della scuola di specializzazione in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio e poi, nel 2000, dei corsi di studi in paesaggio alla Sapienza. Voglio poi ricordare Francesco Ghio, amico compianto, motore di un periodo felice dell’Amministrazione negli anni Novanta nel dar vita a una stagione intelligente di concorsi e di realizzazioni, con un’idea di rete di spazi pubblici che permeava la città sino alle periferie, in quella dimensione metropolitana di cui oggi si parla molto.

Poi ci sono tutti i paesaggisti attivi, che non elenco per evitare omissioni, e oltre 500 giovani professionisti laureati a Roma. Una comunità molto attiva, o che cerca di esserlo, a Roma, in Italia e all’estero.

Un paesaggista è sempre ottimista

Preferisco volgere le mie riflessioni in chiave positiva, perché un paesaggista non può che essere ottimista. Ha un lavoro fatto di molte variabili poco controllabili: la forma incerta dei materiali vegetali; l’incertezza dell’attecchimento delle piante o la loro morte; il successo presso i fruitori e il funzionamento dopo la sua realizzazione o la decadenza per disattenzione o per obsolescenza dei significati. La afterlife, come la definisce John Dixon Hunt4. Ogni paesaggista spera che qualcuno abbia cura di quanto realizzato, sapendo bene che spesso solo la posterità potrà godere a pieno dello sviluppo di un parco, di un giardino, di un albero.

Un neo-Rinascimento per Roma.

Una città di mille giardini

In virtù di questo ottimismo non posso che proclamare in maniera forte un auspicio per la ripresa di una stagione per Roma, una sorta di “neo-Rinascimento” attraverso il paesaggio, e provare a disegnare una città reinterpretata attraverso alcune sue categorie.

Molti, incluso me, hanno utilizzato il termine neo-Rinascimento in forma di auspicio di uscita da una condizione di crisi strutturale. Si è parlato di Rinascimento ad esempio per l’opera di William Kentridge, Triumphs and Laments, sui muraglioni del Tevere, un intervento la cui importanza e risonanza ha pari forse soltanto con l’invenzione nicoliniana dell’Estate Romana, anche quella a seguito di uno dei periodi più difficili di Roma e del Paese.

Per un attimo faccio mio il pensiero di Richard Weller, direttore della scuola di paesaggio di Filadelfia, per la loro proposta nel quadro di Roma 20-25, Forre Intestinum5. In realtà diversi dei contributi di quell’iniziativa ridisegnavano Roma attraverso gli strumenti del paesaggio, rendendone evidente il ruolo paradigmatico nell’organizzazione delle trasformazioni e delle forme della conoscenza.

Weller immagina che la Città del Vaticano, oggi come nel Cinquecento, e le maggiori griffe della moda, possano trasformarsi in motori - culturali, mediatici ed economici - di un grande progetto i cui materiali siano l’acqua, la terra, il bosco, assieme a rifiuti e scarti in uscita dalla città. Una committenza nuovamente illuminata, grandi progettisti impegnati in infrastrutture come era stato per gli acquedotti e le fontane, una popolazione consapevole che cura il giardino del proprio territorio.

A me non sembra un paradosso, soprattutto affiancando l’appello di Franco Zagari rispetto a quanto il “non-fare” sia più costoso del fare, ribaltando ogni luogo comune rispetto alla mancanza di risorse. Ancor più guardando a quelle esperienze dove gli effetti economici e sociali indotti da progetti di paesaggio hanno mostrano quanto il coraggio possa essere premiato.

Perché non pensare che tutti quelli che godono di una rendita di posizione dal loro essere in Roma non possano farsi promotori della sua rinascita attraverso i paesaggi? Perché non tentare la strada delle strategie di rigenerazione dove il paesaggio sia promotore di lavoro, di ricchezza, di nuova identificazione tra persone e territorio?

Acque

La prima proposta è una reinterpretazione del sistema delle acque. Roma come una water city6, che lavora sulla sicurezza, sulla qualità della risorsa e sul suo valore esplicito simbolico. Dopo secoli di impermeabilizzazione e occultamento dell’acqua potremmo ridisegnare una città con una più alta permeabilità diffusa e una rete di nuovi bacini, tra l’Oasi di Nazzano, la diga di Castel Giubileo e il bacino del Porto di Traiano - a Tor di Valle, ad esempio? - per ridurre i rischi idrologici, aumentare la qualità delle acque attraverso filtraggi vegetali, costruire nuove complessità naturalistiche e rigenerare questa risorsa per usi diversi: la pulizia della città, la prevenzione agli incendi, gli usi industriali, ma anche per far vivere nuovi monumenti, coreografie e mostre dell’acqua.

Boschi

La seconda visione è una costellazione di boschi urbani vivibili, di tutte le forme e dimensioni. Immaginare una “architettura degli alberi” come struttura che organizza lo spazio e l’accesso ai luoghi pubblici, eccezionali e ordinari. Polmoni di ossigeno e soldati contro l’isola di calore e le polveri.

Da un lato piccole macchie quasi dense o sale ipostile, dove colonnati di tronchi ospitino il passaggio delle persone, la sosta e le attività più diverse. Come Berlino o altre città che hanno scelto il modello di diffusione di aree verdi alberate a integrazione dei grandi parchi.

Dall’altro grandi nuove foreste urbane, large parks7, nelle aree non più produttive o attorno a poli attrattivi e negli spazi della mobilità. Come è il Parc du Sausset8, nella dura banlieu parigina, attraversato tutti i giorni da migliaia di persone per raggiungere la stazione che li porterà in città: il bosco come superamento dell’isolamento.

Sovrascrittura. Giardini nei giardini

Roma ha anche bisogno di agire sul patrimonio di parchi e giardini storici. Un’immensa ricchezza con un potenziale di significati, di economie e di valori sociali non esplorati. Immaginando per un momento di superare la contrapposizione miope tra le posizioni di conservazione e di innovazione verso una dialettica reale, con la locuzione “giardini nei giardini” voglio indicare la stratificazione di significati e un aggiornamento alla contemporaneità del nostro patrimonio. Accade in tutto il mondo, dove i giardini storici non sono luoghi statici ma spazio per la sperimentazione di linguaggi artistici, architettonici, botanici ed esperienziali, vicini alle mutevoli esigenze sociali. Quindi una sovrascrittura, come è sempre accaduto nelle parti più interessanti di Roma.

La città come vivaio

Penso poi a una norma per occupare in forma transitoria tutte le aree urbane non utilizzate con forme di produzione vivaistica e/o giardini. Usare temporaneamente le aree in attesa di trasformazione, i residui non utilizzabili, gli spazi della mobilità, per la produzione di alberi e arbusti, di fiori da taglio ed eventualmente di cibo, nonché per ottenere biomassa per generare altre risorse. Una ricchezza per la città da forestare o per un mercato sociale d’uso privato. Una città che produce anche lavorando la sua terra, impegnando anche fasce sociali economicamente più deboli, le mille associazioni, gli appassionati del lavoro sulle piante. Una popolazione di vivaisti in una città dove giardinieri, potatori, progettisti ed esperti di piante siano figure chiave di riferimento, custodi delle relazioni tra persone e habitat.

Viste

Se è vero che l’esercizio della linea retta a Roma è difficile, è altrettanto vero che abbiamo forzato in tutti i modi questa sua natura. Prima con la città ottocentesca poi con quella moderna, abbiamo tracciato grandi linee per la mobilità e conformato superfici orizzontali, facili da dominare con monotone geometrie euclidee, ma spesso più banali.

Per costruire nuove visioni della città, potremmo anzitutto far nostra la proposta di Zagari per i “Parchi lineari per Roma”, quattro ipotesi di nuovi tracciati per arricchire la città di nuove esperienze percettive e darle al contempo dei modi più leggeri e sostenibili di attraversarla.

Potremmo poi ricostruire artificialmente morfologie complesse del suolo, variando quelle ordinarie con tratti un andamento simile a via Panisperna; potremmo ripristinare l’abitudine persa di rampe e scale pubbliche e ondulare i suoli di strade, piazze e aree pedonali per metterne in tensione la visione.

Infine moltiplicare le visioni dalle cime dei colli. Visioni dall’alto verso il basso. Ma anche in orizzontale, tra sommità che si guardano da un lato all’altro del fiume, con un continuo rimando: l’Aventino guarda il belvedere del Gianicolo, che guarda quello del Pincio, che guarda Monte Mario e così via. Potremmo continuare verso nord fino a Castel Giubileo, Labaro e oltre; o a sud, verso i Colli Portuensi, che guardano l’EUR e il Palazzo della Civiltà del Lavoro, fino a Galeria e Corviale, dove la geografia volge verso il mare. Dei nuovi belvedere, con un doppio fuoco per il cannocchiale: continuare a guardare verso la città consolidata e il Tevere o volgere lo sguardo verso la città dell’Agro, nella quale si gioca molto del futuro di Roma.

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